POCHI HANNO PROVATO LA SENSAZIONE DI UN “GIARDINO CONCLUSO”, RACCHIUSO TRA EDIFICI CHE EVOCAVANO PIAZZE E CORTI. LE TRASFORMAZIONI MODERNE HANNO CANCELLATO QUEL SENSO DI INTIMITÀ E FAMILIARITÀ CHE LO SPAZIO URBANO ORIGINARIO, COSTRUITO LENTAMENTE NEL TEMPO, RIUSCIVA A TRASMETTERE CON NATURALEZZA E ARMONIA
L’Università di Bari ha compiuto 100 anni. La scultura di Giuseppe Capogrossi, un contributo al percorso culturale dell’Ateneo
Un olio su tela “Capogrossi, Giuseppe, Superficie 290”, del 1958, esposta nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, è stata una delle prime opere che ho studiato di Giuseppe Capogrossi[1] e, forse, non è un caso che la copertina del libro sulla sua retrospettiva tenutasi a Venezia alcuni anni fa alla Fondazione Peggy Guggenheim, ne ripropone un dettaglio.
Un dettaglio, un segno forte, che mi ha sempre riportato mentalmente a Bari, in Piazza Cesare Battisti. Una piccola area verde alle spalle dell’Ateneo dove, ogni mattina, appoggiavamo le nostre spalle a una scultura di bronzo, chiamata erroneamente “cancellata”, in attesa di incontrare amici di classe provenienti dalla provincia, prima di avviarci verso il lungomare e l’Istituto d’Arte di Bari.
La sensazione di “giardino concluso”
I più, forse, non ricordano la sensazione di “giardino concluso”, tra edifici che, in modo mentale, allineavano la piazza/giardino alla grande e alle piccole corti interne dell’Ateneo storico. Le modificazioni contemporanee hanno fatto perdere la sensazione “domestica” dello spazio urbano originario auto-costruitosi nel tempo e nella storia, tra l’Ateneo antico, il Palazzo delle Poste e l’Ateneo nuovo, chiusi visivamente, tra la via Crisanzio e via Nicolai.
La dimensione domestica e urbana aperta a tutti, la piazza/giardino l’aveva guadagnata nel tempo, con la storia, gli eventi, il sistema degli edifici universitari intorno a sé. Quel luogo è stato sempre, insieme con la gemella Piazza Umberto I, il luogo d’incontro dell’avanguardia alternativa politica, sociale, artistica e culturale della città.
È stato il luogo delle discussioni e delle assemblee pubbliche che, negli anni settanta/ottanta, hanno segnato lo sviluppo culturale della città. Storia che dobbiamo ricordare, ponendo l’accento su che cosa è stato quel luogo e quell’architettura urbana composta dalla storica facciata ottocentesca dell’Ateneo, il nuovo Palazzo delle Poste, che incute ancor oggi timore reverenziale con le sue forme e i suoi materiali e l’Ateneo moderno nato su pilotis e delimitato su tre lati dalla cancellata di bronzo, un’opera d’arte scultorea unica.
La “conoscenza” rende “liberi”
Quella cancellata di bronzo per noi era una quinta Come una scena fissa del teatro greco dove, davanti a sé, con libertà assoluta, ogni giorno era in scena la vita vera in modo inconsapevole. Racconti, storie, passioni, amori, studio, avventure dello spirito, si svolgevano in un’atmosfera surreale.
E sulla trama aperta della scultura di bronzo, sono stati annodati striscioni di intere generazioni studentesche, compresa la mia. Consapevoli che la “conoscenza” rendeva “liberi” e l’Università, luogo di scienza, conoscenza e pensiero rendeva possibile tale “libertà”.
Quel luogo urbano ha avuto un’anima plasmata dalla storia, dagli eventi, dai giovani che l’anno vissuta intensamente con la presenza fisica. I fogli ciclostilati in bianco e nero, le frasi, i graffiti, i ta tze bao. Mentre, in fondo alla piazza, sulla via Crisanzio, nel Cinema Teatro Galleria, gli AREA, i GENESIS e la PFM inondavano di suoni e poesia il pensiero studentesco. Creando quel carattere, quell’idea-anima e quell’odore-profumo dei giovani che l’ha caratterizzata per anni.
È in quel contesto storico-culturale che è stata ideata e realizzata la scultura di bronzo e Giulio Carlo Argan, con coraggio, la presentò al pubblico, il 13 giugno del 1973, spiegandola e cogliendo l’occasione di sintetizzare tutta l’opera di Giuseppe Capogrossi, scomparso da pochi mesi.
Una “poetica del segno”
Un’idea che ha avuto origine e si è configurata quando Giuseppe Capogrossi, dopo anni di ricerca pittorica, passò dalla pittura-figurativa alla non-figurazione (1947-1949) sviluppando una “poetica del segno” che Giulio Carlo Argan sintetizzo più tardi nel 1967, introducendo le sue “nuove” opere nelle mostre d’arte sino alla realizzazione della scultura di bronzo nel 1972.
Il percorso artistico di Capogrossi nelle parole di Ernesto Quagliariello, Rettore dell’Università di Bari
Nei primi mesi del 1973, in molti si sono cimentati nel sintetizzare l’opera di Giuseppe Capogrossi. Lo stesso 13 giugno 1973, Ernesto Quagliariello, Rettore dell’Università di Bari che quest’anno copie 100 anni, fu uno dei primi insieme con Giulio Carlo Argan, che nel Castello Svevo di Bari, presentò l’opera.
Il Rettore riassunse il percorso artistico di Capogrossi con queste parole: «A me piace in questo momento ricordare Giuseppe Capogrossi nei nostri ultimi incontri romani; piace ricordarlo nella sua alta figura, con i suoi occhi dolcemente buoni, con il suo sguardo penetrante, con la sua voce lieve ma sicura. Voglio ricordarlo nelle nostre appassionate discussioni sul vero significato dell’arte, sull’alta missione dell’artista.
Poi vennero i giorni oscuri ed egli accusa dapprima un lieve malessere; una tosse fastidiosa spesso lo rendeva ansioso; cominciò il suo lento ma inesorabile declino.
Ed egli scherzosamente ripeteva “Parente biologo mi devi dare vitamine adatte per vincere la mia stanchezza, perché devo lavorare, ho tante idee trattenute in me; idee che devo trasferire nella realtà dei colori”.
Spesso egli mi chiamava “caro parente” perché, riandando nei tempi infinitamente lontani, avevamo trovato nella nostra comune origine salernitana un qualche immaginario avo nostro progenitore.
Questo ritrovamento forse era scaturito non da una realtà familiare, ma da una meravigliosa immaginazione: immaginazione che sorgeva dalla spontaneità dell’affetto e dalla esaltazione per i sentimenti di amicizia.
Così spesso ritorna a me l’amico Beppe e così oggi lo vedo accanto a noi celebrato da Giulio Carlo Argan.
Capogrossi soleva dire “come è facile fotografare sulla tela ciò che vediamo senza mai raggiungere la perfezione della natura; come è difficile trasformare il visibile in un disegno esterno, infinito, oggettivamente valido”. E sorse così il suo segno, la sua grande pittura».
Un misterioso avvenimento d’arte
Nel 1950 dopo il distacco dalla “Scuola Romana” e dai suoi amici Cagli e Cavalli, costituì il nuovo gruppo “Origine” con Alberto Burri ed Ettore Colla.
Le sue pitture per molti rappresentarono un enigma e il suo segno un misterioso avvenimento d’arte. In realtà l’enigma di questo segno esiste solo per chi chiede alla pittura una rappresentazione. Ma il segno non è mai una rappresentazione: è un’immagine che trattiene un significato.
Una spiegazione del segno di Capogrossi
Ma, con un difficile esame di motivi inespressi, se volessimo realizzare una spiegazione del segno di Capogrossi, potremmo raccogliere le parole del grande artista; parole di illuminazione profonda e di altissima elevazione:
“…avevo dieci anni e mi trovavo a Roma. Un giorno andai con mia madre in un istituto di ciechi. In una sala due bambini disegnavano. Mi avvicinai: i fogli erano pieni di piccoli segni neri, una sorta di alfabeto misterioso ma così vibrante che, per quanto a quell’età non pensassi affatto all’arte, provai una profonda emozione. Sentii fin da allora che i segni non sono necessariamente l’immagine di qualcosa che si è visto, ma possono esprimere qualcosa che è dentro di noi, forse la tensione che deriva dall’essere immersi nella realtà. In quel preciso momento nacque, credo, la mia vocazione artistica.
E non riuscirono a spegnerla gli studi classici che, per tradizione familiare dovetti seguire fino a prendere la laurea in diritto. Mi dedicai interamente alla pittura e fui per molti anni e con notevole successo un pittore “figurativo”. Vi sono ancora molte persone che rimpiangono il mio talento perduto, mentre i più benevoli si meravigliano della mia conversione alla pittura astratta. Io però sono convinto di non avere sostanzialmente cambiato la mia pittura ma di averla chiarita. Fin dal principio infatti ho cercato di non contentarmi dell’apparenza della natura; ho sempre pensato che lo spazio è una realtà interna alla nostra coscienza, e mi sono proposto di definirlo”.
Un “caso” assai difficile
Penso che nessuno possa dare una interpretazione più esatta e una chiarificazione più alta di questo meraviglioso segno. Forse dell’unico segno che testimonierà un periodo d’arte di pensosi travagli e di profonde crisi[2].
Anche Gillo Dorfless si è espresso sul Grande Maestro in quei primi mesi del 1973: “Capogrossi costituisce oggi, è costituirà domani per i futuri storici dell’arte del XX secolo, un “caso” assai difficile: il caso di un artista isolato, che non ebbe maestri e che non ebbe discepoli. Che cominciò la sua rapida ascesa nell’universo pittorico contemporaneo già più che quarantenne, con una rinnovata adolescenza creativa e spirituale che doveva accompagnarlo lungo le tappe d’una brillante avventura artistica”.
Un emblema personalissimo
Fu nel gennaio del 1950 che Capogrossi espose per la prima volta (nella sua mostra alla “Galleria del Secolo”, a Roma) le sue nuove tele astratte, il risultato di due anni di meditazione e di assidui tentativi per giungere alla liberazione dell’oggetto e alla individuazione d’una nuova firma espressiva.
Già allora si affacciava quale unico e misterioso protagonista quell’emblema personalissimo che fu tosto definito da alcuni come “pettine” da altri come “forchetta”.
Segno che aveva in sé una misteriosa e criptica natura. Qualcosa di magico e di scientifico insieme, quasi si fosse trattato della ricomparsa di antichi simboli, tratti da testi ermetici, da cifrari alchemici.
Un segno non rappresenta ma significa
I segni di Capogrossi “raccontano” sempre qualcosa, come lo raccontano tutti gli alfabeti decifrati o indecifrabili, noti e ignoti, come lo raccontano gli infiniti segnali che ogni giorno ci circondano con le loro crudeli ammonizioni, coi loro comandi e i loro divieti.
In realtà, l’enigma di questo segno esiste solo per chi si chieda che cosa mai rappresenti, senza riflettere che un segno non rappresenta, ma significa, e serve soprattutto a ristabilire la continuità fra lo spazio dell’esistenza e quello del quadro.
È questo segno è una costante generatrice di una infinità di varianti, tesi sostenuta dallo stesso Argan nella sua monografia sull’artista.
Se poi volessimo cercare una spiegazione, per così dire, psicologica di questo archetipo di Capogrossi, potremmo ricorrere alla testimonianza dello stesso artista[3].
(segue)
© Domenico Tangaro Studio di Architettura Design Urbanistica
[1] Italo Mussa, Nel “segno” di Giuseppe Capogrossi, in Nuova Antologia, n. 2065, Roma, 1973.
[2] Italo Mussa, Nel “segno” di Giuseppe Capogrossi, in Nuova Antologia, n. 2065, Roma, 1973.
[3] Italo Mussa, Nel “segno” di Giuseppe Capogrossi, in Nuova Antologia, n. 2065, Roma, 1973.