LA SCOMPARSA DEGLI AVVOLTOI IN INDIA HA AVUTO RIPERCUSSIONI INASPETTATE SULLA POPOLAZIONE, DIMOSTRANDO COME LE SORTI DELL’AMBIENTE E DELLA SALUTE UMANA SIANO STRETTAMENTE INTERCONNESSE. A SVELARE QUESTO LEGAME, STUDI DELLE UNIVERSITÀ DI WARWICK A COVENTRY, IN GRAN BRETAGNA E DI CHICAGO, USA
Avvoltoi in India, i netturbini della natura e i rischi legati alla loro estinzione
Gli avvoltoi (rapaci che appartengono alla famiglia Accipitridae), svolgono un ruolo ecologico importantissimo come spazzini naturali, poiché si nutrono di animali morti. Questo processo riduce la proliferazione di patogeni e il rischio di malattie, prevenendo anche la contaminazione di acqua e suolo.
Senza il loro intervento, le carcasse possono infatti accumularsi, diventando un richiamo irresistibile per altri necrofagi come i cani selvatici noti, però, per essere portatori di malattie pericolose come la rabbia.
Questo è esattamente ciò che è accaduto nel subcontinente indiano, dove la drastica riduzione della popolazione dei rapaci ha portato a gravi conseguenze sanitarie. Ma cerchiamo di capire cosa è successo a questi volatili.
Il declino degli avvoltoi indiani
In India, tre specie di avvoltoi hanno subito un drammatico declino: il dorso bianco (Gyps bengalensis), l’avvoltoio indiano (Gyps indicus) e il beccosottile (Gyps tenuirostris). A provocarlo, è stato principalmente l’uso del diclofenac, un farmaco antinfiammatorio introdotto nel 1994 per il trattamento del bestiame.
« tempo gli avvoltoi erano onnipresenti, ma il diclofenac ha praticamente annientato la loro popolazione». A spiegarlo, Anant Sudarshan, economista ambientale all’Università di Warwick. Sebbene efficace per gli animali da allevamento, il diclofenac si è rivelato estremamente tossico per gli avvoltoi che si nutrivano delle carogne degli animali trattati con questo medicinale. Il farmaco causa infatti un’insufficienza renale acuta nei rapaci, portandoli rapidamente alla morte.
Nel giro di un decennio, la popolazione di questi volatili nel Paese asiatico è quindi crollata da circa 50 milioni a meno di duemila esemplari, un declino catastrofico con gravi ripercussioni sia per gli ecosistemi sia per la salute pubblica. Approfondiamo la questione.
Implicazioni sanitarie e ambientali
Lo studio condotto da Sudarshan ed Eyal Frank dell’Università di Chicago ha rivelato che la scomparsa degli avvoltoi nelle regioni dell’India ha portato a un aumento del 4,7% nella mortalità umana, che corrisponde a circa 104.386 decessi in più all’anno.
Questo incremento è stato principalmente causato dalla cattiva gestione dei resti animali, che, in assenza dei rapaci, venivano spesso abbandonati nelle periferie o gettati nei fiumi, provocando una significativa contaminazione ambientale.
Inoltre, l’industria della concia delle pelli, che tradizionalmente si basava sui rapaci per eliminare i residui animali, ha dovuto adottare metodi alternativi, tra cui l’uso di sostanze chimiche come il cromo per trattare questi materiali. Questi composti, durante i processi industriali, si sono riversati nei corsi d’acqua, aumentando il rischio di esposizione a sostanze nocive per le comunità locali e aggravando ulteriormente l’impatto ambientale e sanitario. Risultato?
Perdita della biodiversità e impatto economico
I ricercatori hanno stimato che la perdita dei rapaci indiani abbia causato un danno economico di 69,4 miliardi di dollari all’anno solo tra il 2000 e il 2005.
Questo calcolo è stato effettuato considerando il costo associato alla salvaguardia della salute pubblica, un parametro economico utilizzato cioè per valutare il valore sociale della prevenzione delle malattie e della perdita di vite, che in questo caso è di circa 665.000 dollari per ogni individuo salvato.
Modello “One Health”

Il caso degli avvoltoi in India illustra chiaramente il modello One Health, un approccio sanitario olistico, che integra cioè diverse discipline per riconoscere e affrontare l’interconnessione tra la salute umana, animale e dell’ecosistema. Questo concetto, sebbene antico, è diventato sempre più rilevante con l’emergere di pandemie come il COVID-19 e la crescente crisi climatica.
Le malattie infettive possano infatti sorgere e diffondersi quando gli ambienti naturali vengono disturbati e le specie animali sono costrette a interagire più frequentemente con gli esseri umani.
La distruzione degli ecosistemi, ad esempio attraverso la deforestazione o l’espansione urbana, costringe gli animali selvatici a entrare in contatto più stretto con le aree abitate. Cosa che aumenta il rischio di trasmissione di patogeni agli esseri umani.
Quanto al termine One Health, questo trae origine dai lavori del patologo tedesco Rudolf Virchow nel XIX secolo, che già allora sosteneva l’assenza di confini tra la salute umana e quella animale.
Negli anni 2000, con la minaccia dell’influenza aviaria, le istituzioni internazionali hanno rilanciato questo approccio, incoraggiando una stretta collaborazione tra medici, veterinari, ambientalisti e altri esperti, per migliorare la preparazione e la risposta alle crisi sanitarie.
In Italia e in Europa, il modello è ufficialmente riconosciuto e promosso dal ministero della Salute e dalla Commissione Europea, che lo considerano fondamentale per affrontare sfide sanitarie complesse come la resistenza agli antibiotici, le malattie zoonotiche e la sicurezza alimentare. Anche l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha adottato questa strategia, avviando collaborazioni multidisciplinari per garantire una salute globale più efficace e sostenibile.
In sostanza, un ambiente sano contribuisce a una comunità umana sana, e viceversa.
Fonti
Università di Warwick e Università di Chicago, studi su avvoltoi e salute pubblica.
Science