L’USO DI ARMI ALL’UI (URANIO IMPOVERITO) E LA CONTAMINAZIONE INDIRETTA DEI NOSTRI SOLDATI È OGGETTO DI CRITICHE E CONTROVERSIE. SEBBENE MOLTI PAESI ABBIANO RICHIESTO DIVIETI INTERNAZIONALI, QUESTE ARMI NON SONO UFFICIALMENTE PROIBITE DAL DIRITTO INTERNAZIONALE. TUTTAVIA, L’USO DI ARMI DU (DEPLETED URANIUM) È MONITORATO PER I POTENZIALI EFFETTI AMBIENTALI E SANITARI
Sebbene l’Italia non abbia utilizzato munizioni all’uranio impoverito, alcuni nostri soldati sono stati esposti all’inquinamento ambientale causato dall’armamento DU – già nel 1992 in Somalia – impiegato dalle forze statunitensi durante l’operazione Restore Hope. Il sacrificio di alcuni soldati italiani vittime dell’UI ha sollevato la consapevolezza sul tema della sicurezza dei militari italiani impegnati in teatri operativi contaminati.
Restore Hope
A gennaio del 1991 Siad Barre fugge da Mogadishu. La Somalia, è al collasso le agenzie umanitarie lasciano il Paese e le Nazioni Unite chiedono l’intervento degli Stati Uniti.
L’8 dicembre 1992 prende il via l’operazione con il nome in codice RESTORE HOPE.
Gli Stati Uniti entrano in Somalia alla guida di una coalizione internazionale composta da tredici nazioni, denominata Unified Task Force, or UNITAF. Ciascun membro dell’UNITAF contribuisce con diversi livelli di supporto militare agli sforzi umanitari e di peacekeeping.
Ma facciamo un passo indietro. L’intervento militare italiano in Somalia. Un po’ di storia
«Italia è sicuramente responsabile delle lotte tribali e del genocidio in Somalia», risponde Francesco Rutelli, al corrispondente americano a Roma del Washington Post, Wolfgang Achtner. L’ex deputato del partito ambientalista dei Verdi ha svolto un ruolo di spicco nel denunciare quello che è diventato uno grosso scandalo in Italia.
I fatti, dimostrano che l’agonia della Somalia ha le sue radici nella diffusa corruzione politica nel nostro Paese. Nel corso degli anni ’80, infatti, politici e uomini d’affari italiani hanno utilizzato la Somalia come terreno di gioco per enormi progetti economico-finanziari che poco hanno fatto per aiutare la popolazione africana. Anzi, hanno effettivamente danneggiato la ex colonia italiana.
Nel 1978, il primo atto di una nuova alleanza politica tra il Partito Rivoluzionario Socialista Somalo e il Partito Socialista Italiano è l’apertura della Camera di Commercio Italo-Somala a Milano. Il nuovo leader Partito Socialista Italiano è Bettino Craxi; suo cognato, Paolo Pillitteri, è il presidente della Camera di Commercio. Molti dei progetti di costruzione sponsorizzati dagli italiani in Somalia negli anni ’80 furono intermediati dall’ente milanese.
“La realtà del cinico ruolo dell’Italia in Somalia – scrive Achtner nel suo articolo – è evidente dai documenti resi disponibili al Parlamento dal ministero degli Affari Esteri italiano. Essi mostrano che l’Italia ha sponsorizzato 114 progetti in Somalia tra il 1981 e il 1990, spendendo oltre un miliardo di dollari. Con poche eccezioni (come un programma di vaccinazione realizzato da organizzazioni non governative), le iniziative italiane erano assurde e sprecone”.
L’apporto italiano alla Somalia del despota Siad Barre
Nel 1993, con Bettino Craxi Primo ministro, i socialisti inondano la Somalia con milioni di dollari di aiuti. Siad Barre ottiene armi, consulenti militari e addestratori per le sue forze armate.
L’Italia finanzia 250milioni di dollari per realizzare una strada, la Garoe-Bosaso lunga 450 chilometri attraverso il deserto, percorsa solo da nomadi a piedi. Più di 40milioni di dollari per costruire un nuovo ospedale dotato di apparecchiature sofisticate e sale operatorie a Corioley, a sud di Mogadiscio.
Ma, poiché i somali non erano in grado di gestirlo, l’ospedale è stato lasciato andare in rovina. Circa 95milioni di dollari per una fabbrica di fertilizzanti a Mogadiscio mai entrata in funzione. Gli italiani hanno persino istituito l’Università della Somalia, nonostante il fatto che il 98 percento della popolazione fosse analfabeta. I professori italiani ricevevano stipendi compresi tra 16mila e 20mila dollari al mese. Tre pescherecci pagati da un programma governativo italiano per sviluppare l’industria della pesca, mai utilizzati vanno in rovina.
“Le tangenti – scrive il giornalista americano – divennero una routine degli affari attraverso la Camera di Commercio…”. Nel corso di una causa intentata contro Craxi e Pillitteri nella primavera del 1989, il generale Mohamed Farah Aidid, ex collaboratore di Siad Barre, sostiene che i Socialisti avevano promesso a lui e a un altro ufficiale somalo il 50% delle commissioni del 10% su tutti gli affari conclusi attraverso la Camera. I due somali affermano di avere crediti per miliardi di lire. Ma il tribunale civile di Milano respinge la causa, stabilendo che è impossibile confermare l’esistenza di un accordo per dividere le tangenti, senza prove scritte.
Responsabilità del governo italiano nella guerra civile nel Corno d’Africa
«Considerando che dal 1981 al 1990 gli aiuti italiani alla Somalia erano quasi pari al 50 percento del PIL del Paese e che per anni l’Italia è stata il principale donatore di aiuti alla Somalia – afferma Rutelli al corrispondente del Post -, è facile capire quale influenza negativa abbiamo avuto e quanto grandi siano le nostre responsabilità».
“Piero Ugolini, un agronomo fiorentino che ha lavorato per l’unità di cooperazione tecnica dell’Ambasciata italiana a Mogadiscio dal 1986 al 1990 – scrive ancora Achtner nella sua inchiesta -, sostiene che la maggior parte dei progetti di cooperazione italiana sono stati realizzati senza considerare i loro effetti sulle popolazioni locali. Il risultato, afferma, sono state crescenti tensioni sociali che hanno portato alla guerra civile”.
La guerra civile e la siccità causano morte e distruzione in tutto il Paese. Quasi un milione di somali cerca rifugio nei Paesi vicini e altrove. Secondo l’ONU, quasi 4,5milioni di somali, oltre la metà della sua popolazione stimata di 8,3 milioni, hanno sofferto di grave malnutrizione e malattie correlate.
A gennaio del 1991 Siad Barre fugge da Mogadishu. La Somalia, è al collasso le agenzie umanitarie lasciano il Paese e le Nazioni Unite chiedono l’intervento degli Stati Uniti.
Operazione Ibis. L’Italia cerca il riscatto
Il nostro Paese che cerca attivamente di consolidare la sua presenza e influenza in Africa, dà il via al coinvolgimento italiano nella missione internazionale RESTORE HOPE. Operazione “tesa anche a riscattare definitivamente Roma dall’ombra della passata complicità con Siad Barre” (Marlina Veca, giornalista, scrittrice – “Scandalo Somalia: anatomia di un falso”).
A dicembre del 1992 soldati italiani, della Marina, dell’Aeronautica e paracadutisti della Folgore, ritornano sul suolo somalo dopo la fine della II Guerra Mondiale, a sostegno della UNITAF con l’Operazione Ibis. Il nostro è il secondo schieramento di forze militari dopo quello degli Stati Uniti.
Proprio i paracadutisti della Folgore hanno il battesimo del fuoco il 2 luglio del 1993 a Mogadiscio. I parà si scontrano duramente con i miliziani dell’Alleanza Nazionale Somala, il clan di uno dei signori della guerra, il generale Mohamed Farrah Aidid.
I nostri soldati subiscono un agguato vicino al cosiddetto “Checkpoint Pasta”, un posto di blocco allestito nei pressi di un pastificio della Barilla abbandonato e da cui la battaglia prende il nome.
La mattina del 2 luglio 1993 gli italiani hanno il compito di effettuare un’operazione di rastrellamento denominata “Canguro 11” ad Haliwa, un distretto a nord di Mogadiscio, con l’obiettivo di ricercare, casa per casa, depositi di armi e lo stesso Mohamed Farrah Aidid. Potente capo di un gruppo miliziano che si contende il controllo della città con altri guerriglieri locali, nel 1995, poi, al termine dell’intervento di peacekeeping internazionale, Aidid si proclama presidente della Somalia.
Esposizione dei militari all’UI: il governo italiano fa lo gnorri
Durante l’Operazione Restore Hope, nel 1992-1993, gli americani, in Somalia come nel 1991 nel Golfo, usano una grossa quantità di armamento all’Uranio Impoverito.
In seguito all’intervento USA in Somalia, il 14 ottobre 1993 l’Headquarters Department of the Army-Office of the Surgeon General emana le linee guida relative all’esposizione al Depleted Uranium (DU).
Gli americani precisano in maniera chiara che l’esposizione dei soldati all’Uranio Impoverito, sia attraverso l’inalazione sia per ingestione, comporta un possibile incremento del rischio di sviluppare il cancro.
Ma già nel 1984, la NATO emette direttive dettagliate a tutti gli Stati membri in merito ai militari esposti all’UI. Direttive cui il nostro governo fa finta di ignorare.
In una lettera pubblicata su Embedded Agency, l’avv. Giuseppe Frate descrive la drammatica testimonianza del maresciallo Marco Diana dei Granatieri di Sardegna, così come riportato.
«I missili sparati dai loro elicotteri – racconta Diana – sollevavano enormi nuvole di polvere bianca. Quella polvere ci avvolgeva e noi la respiravamo. E ridevamo degli americani che poi scendevano sul campo avviluppati in tute che li facevano sembrare dei marziani. Ridevamo e non sapevamo che stavamo respirando un veleno che ci uccideva. Loro non avevano un lembo di pelle scoperta, noi eravamo in pantaloncini corti e a petto nudo. I nostri comandanti, quando andavamo a chiedere spiegazioni, definivano il loro abbigliamento “americanate”.
Colpiti da fuoco amico
Il fuoco amico, che poi tanto amico non è e neppure tanto fuoco perché è un killer invisibile, colpisce Marco Diana. L’esposizione agli effetti del munizionamento all’Uranio Impoverito gli causa un tumore al sistema linfatico.
Dopo l’imboscata al Checkpoint Pasta, ai militari italiani viene ordinato di non attraversare più il centro di Mogadiscio ma di girare intorno alla città, per raggiungere altri posti di controllo. Il nuovo percorso, però, passa attraverso un’area che gli americani utilizzano per esercitarsi con le armi all’UI.
«Ogni volta che passavamo per di là – riferisce il granatiere – la pelle si ricopriva di polverina bianca. Bruciava come se avessimo il corpo colpito da migliaia di punture di spilli. Non passava nemmeno dopo aver fatto la doccia».
Non solo, al suo rientro in Italia, Diana presta servizio al poligono di Capo Teulada in Sardegna, dove le truppe alleate si esercitano con armamento DU che hanno in dotazione. L’effetto del DU è lo stesso che nei teatri di guerra.
Il maresciallo dei Granatieri di Sardegna Marco Diana muore l’8 ottobre 2020 a causa dell’Uranio Impoverito, dopo anni di sofferenze e di lotta contro lo Stato, che aveva servito con onore. Il governo lo risarcisce ma non gli riconosce la causa di servizio per il nesso di causalità tra la sua patologia e l’esposizione all’UI, che è quello che Diana voleva, non per sé: «Non è una lotta personale – è la frase che lo ha sempre contraddistinto – ma è quella di tutti i servitori dello Stato che si sono ammalati nell’assolvere il loro dovere».
Falco Accame: una sentenza storica
Una sentenza del 17 dicembre 2008 del Tribunale di Firenze Sezione II Civile, recita: “Il parere del Consulente Tecnico, così come evidenziato dalla sentenza, rileva che la malattia manifestata dal militare (*) e meglio identificata come linfoma di Hodgkin, sia inequivocabilmente causalmente legata all’esposizione del soggetto all’Uranio Impoverito”.
E nella parte rappresentata come SVOLGIMENTO DEL PROCESSO, detta sentenza descrive che: “Con atto di citazione notificato il XXXXXX, XXXXXXXXXXXXX conveniva in giudizio ministero della Difesa, affinché fosse accertata e dichiarata la responsabilità del Ministero per le patologie contratte da esso attore durante la sua permanenza in Somalia, dove era stato inviato nell’ambito della operazione Ibis, mentre svolgeva il servizio militare di leva, in qualità di paracadutista, per l’Esercito Italiano”.
Un passo importante, è descritto nei MOTIVI DELLA DECISIONE: “Sulla responsabilità del sinistro si osserva che il XXXXXXXXXXXXX ha agito in giudizio per vedere affermata la responsabilità del Ministero della difesa per la malattia contratta a seguito dell’impiego da parte dell’Esercito di armi all’uranio impoverito nel corso della missione Ibis cui partecipò come militare di leva”. Il Tribunale, però, non cita nessun documento a questo proposito.
A rendere noto il contenuto della sentenza è l’ammiraglio ed ex parlamentare Falco Accame, presidente dell’Anavafaf, associazione che assiste le vittime arruolate nelle Forze armate, alla quale il paracadutista (*) Gianbattista Marica si era rivolto, decidendo di rendere pubblico il proprio caso, nel 2001. Marica si è ammalato di cancro nel corso della missione Ibis in Somalia, da dicembre 1992 a luglio ’93. Muore il 10 marzo 2009.
Oggi, solo in Italia, sono più di 400 i militari morti a causa dell’UI e altri 8mila sono ammalati in maniera grave. Soltanto in seguito ai bombardamenti NATO durante la guerra nella ex Jugoslavia del 1999, i reparti italiani sanno del pericolo DU, quando vengono diffuse le norme di protezione destinate ai militari nei Balcani.
Di Uranio Impoverito e amianto se ne parla al convegno “Amianto e Uranio: quale sicurezza sul lavoro per i nostri uomini in divisa”, in Campidoglio, il 20 gennaio 2025. Tra i relatori, Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto, Paola Vegliantei, presidente ADL e Gaetano Veneto presidente Centro Studi Diritto dei Lavori.
Fonti
The United States Army in Somalia 1992 – 1994 (AUSA Association of the United States Army – The institute of Land Warfare)
The Italian Connection: How Rome Helped Ruin Somalia (By Wolfgang Achtner – The Washington Post)
Stability Operations in Somalia 1992-1993: A Case Study (Glenn M. Harned Colonel, U.S. Army)
La “battaglia del pastificio” in Somalia, trent’anni fa (Il Post)
Lo “strano” caso del maresciallo Marco Diana (embedded agency)
Italia, la storia dell’avvocato Tartaglia, difensore di molti soldati vittime dell’uranio impoverito (euronews.)