UNA PLASTICA VIVENTE CHE, UNA VOLTA SMALTITA, SI AUTODISTRUGGE AUTONOMAMENTE COME UN KAMIKAZE NON È FANTASCIENZA, MA UNA VERA INNOVAZIONE NEL CAMPO DELLA CHIMICA DEI MATERIALI. A PROGETTARLA, UN TEAM ASIATICO
I danni della plastica e la necessita di trovare soluzioni

L’uso massiccio della plastica ha effetti profondamente negativi sull’ambiente e sulla salute umana, che si manifestano in vari modi. Innanzitutto, questo materiale è progettato per essere resistente e durevole, il che significa che non si degrada facilmente.
Accumulandosi in mari, fiumi e suoli, può rimanere per decenni o addirittura secoli. Ma una delle principali preoccupazioni è la formazione di microplastiche, minuscole particelle (inferiori a 5 millimetri) che si generano dalla frammentazione dei suoi rifiuti.
Queste, si diffondono facilmente nell’ambiente e diverse specie di animali, tra cui pesci e uccelli marini, finiscono per ingerirle. Cosa che può causare loro gravi problemi di salute, come blocchi intestinali, malnutrizione, e in molti casi può portare alla morte.
La diffusione di queste particelle minuscole non si limita agli ecosistemi acquatici. Si infiltrano infatti nella catena alimentare e, alla fine, possono arrivare fino all’uomo. Consumare pesci e frutti di mare contaminati può avere effetti negativi sulla salute umana, tra cui problemi digestivi e possibili conseguenze tossiche a lungo termine, dovute all’accumulo dei composti chimici legati a questi frammenti di plastica.
Smaltimento e inquinamento da rifiuti plastici
Smaltire i rifiuti plastici è un problema complesso per diversi motivi. Come accennato, molti di questi materiali sono progettati per essere durevoli e resistenti alla decomposizione. Inoltre, le infrastrutture per il riciclaggio sono spesso insufficienti o inadeguate, il che fa sì che una grande quantità di plastica finisca in discariche o sia incenerita.
La gestione impropria dei rifiuti industriali ha conseguenze ancora più gravi. Durante la loro produzione, vengono rilasciate nell’ambiente grandi quantità di sostanze chimiche tossiche e gas serra, che contribuiscono significativamente all’inquinamento atmosferico e al riscaldamento globale.
Quando i materiali di scarto vengono bruciati, si liberano ulteriori inquinanti dannosi, come diossine e furani, cioè composti organici persistenti (POP), che non solo peggiorano la qualità dell’aria, ma rappresentano anche un grave rischio per la salute pubblica.
In risposta a questa emergenza, un gruppo di scienziati ha sviluppato una “plastica vivente”, progettata per disintegrarsi autonomamente una volta che inizia il processo di erosione. Cerchiamo di capire meglio.
La plastica kamikaze
Tutto è iniziato nel 2016, quando una squadra di ricercatori in Giappone scoprì dei batteri in un impianto di riciclaggio. Questi microorganismi erano in grado di produrre enzimi capaci di “fagocitare” la plastica. Ispirati da questa scoperta, gli scienziati hanno deciso di incorporare queste proteine “mangiaplastica” direttamente nella struttura dei materiali.
Il risultato è un materiale realizzato con policaprolattone (PCL), al cui interno sono incorporate spore batteriche geneticamente modificate per produrre specifiche proteine. Quando la plastica inizia a degradarsi, le spore si attivano e rilasciano tali enzimi che accelerano la decomposizione.
In condizioni di compostaggio, il materiale quindi si disintegra completamente in circa un mese, molto più rapidamente rispetto alle versioni biodegradabili tradizionali, che possono richiedere fino a 55 giorni per decomporsi.
Il team di ricerca, guidato dal biologo sintetico Chenwang Tang dell’Accademia Cinese delle Scienze, ha migliorato ulteriormente questa tecnologia. I ricercatori hanno modificato il DNA del microbo Bacillus subtilis aggiungendo un gene preso dal batterio Burkholderia cepacia, che permette al microbo di produrre un enzima chiamato lipasi.
Grazie a questa modifica, gli studiosi hanno creato una “super spora” capace di resistere a temperature e pressioni elevate. Quando viene attivata, inizia immediatamente a decomporre il policaprolattone (PCL), accelerando notevolmente il processo di biodegradazione del materiale.
Ma perché fermarsi qui?
Ulteriori test
I ricercatori hanno testato questa tecnologia anche su altri tipi di materiali plastici, come PBS, PBAT, PLA, PHA e persino PET, che è particolarmente difficile da decomporre perché richiede temperature molto elevate, fino a 300°C, per essere lavorato. In tutti questi casi, le spore batteriche hanno dimostrato di poter resistere al calore del processo di produzione.
Una volta che il materiale inizia a degradarsi, le spore si attivano e iniziano la loro “missione”, disintegrando la plastica e completando il compito, anche a costo della propria distruzione.
Per dimostrare la robustezza delle “plastiche viventi”, i ricercatori hanno immerso i campioni in una soluzione di soda per due mesi, e con grande sorpresa, hanno scoperto che sono rimaste intatte, pronte a degradarsi solo quando effettivamente erose. Questo suggerisce un potenziale impiego nel settore dell’imballaggio, dove la plastica è spesso a contatto con cibi e bevande.
Insomma, sebbene lo studio sia ancora una “prova di concetto”, cioè in fase sperimentale, la possibilità di creare materiali biodegradabili e sostenibili che non inquinano il pianeta per secoli sembra molto più vicina. Considerando che la produzione di materiali plastici è raddoppiata negli ultimi venti anni, trovare soluzioni innovative per ridurre l’inquinamento è diventato estremamente urgente.
Insomma, il futuro è nelle mani della plastica kamikaze: un materiale che non solo fa il suo lavoro mentre è in vita, ma che ha anche la decenza di autodistruggersi quando non serve più. Forse un giorno, grazie a questa tecnologia, potremo finalmente dire addio ai rifiuti plastici che soffocano il nostro pianeta.