martedì, Aprile 29, 2025

“Diversità oscura”: un nuovo approccio per la conservazione della biodiversità

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UNO STUDIO MISURA L’EFFETTO INVISIBILE DELL’UOMO SULLA NATURA, UN LAVORO CORALE SVOLTO IN COLLABORAZIONE CON NOVE UNIVERSITÀ ITALIANE E COORDINATO DA QUELLA DI TARTU IN ESTONIA. LA PAROLA CHIAVE? “DIVERSITÀ OSCURA”, UN NUOVO APPROCCIO CHE MISURA LA BIODIVERSITÀ CHE DOVREBBE ESSERCI MA CHE NON C’È

“Diversità oscura”: misurare quello che non c’è

C’è una parte di biodiversità che non appare nei conteggi ufficiali, che sfugge alle osservazioni sul campo ma che dovrebbe esserci. È la cosiddetta diversità oscura”, cioè l’insieme delle specie vegetali autoctone che potrebbero vivere in un determinato ecosistema ma che risultano assenti a causa delle trasformazioni imposte dall’uomo.

A svelare l’entità di questo fenomeno è uno studio internazionale pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, frutto del progetto DarkDivNet, che ha coinvolto oltre 250 ricercatori e ricercatrici in tutto il mondo.

Il bilancio è allarmante: nei territori a forte impronta antropica, solo una pianta autoctona su cinque riesce a sopravvivere. Tutto il resto è stato cancellato, spesso in modo silenzioso e irreversibile.

DarkDivNet: un’alleanza scientifica globale (con forte presenza italiana)

Il progetto è stato coordinato dall’Università di Tartu, in Estonia, e ha visto una significativa partecipazione italiana. Hanno infatti contribuito quindici botanici e botaniche provenienti da nove università del nostro Paese, tra cui l’Università di Bologna con il professor Alessandro Chiarucci, membro del Comitato Scientifico di DarkDivNet. Le università italiane coinvolte sono:

  • Università di Bologna
  • Università di Parma
  • Università dell’Aquila
  • Università dell’Insubria
  • Università di Catania
  • Università di Palermo
  • Università di Cagliari
  • Università della Basilicata
  • Università Ca’ Foscari Venezia

Un lavoro corale che ha portato alla raccolta di dati su 5.500 siti in 119 regioni del mondo, analizzando non solo le specie presenti, ma anche quelle “mancanti” che, in condizioni ideali, dovrebbero far parte dell’ecosistema.

L’impronta umana che lascia vuoti nella natura

La ricerca ha incrociato le informazioni sulla composizione vegetale dei siti con l’Indice di Impronta Umana, un indicatore che valuta il livello di pressione esercitata dalle attività antropiche. Questo indice tiene conto di fattori come l’urbanizzazione, la densità abitativa, l’agricoltura intensiva, la costruzione di strade e infrastrutture, l’inquinamento.

Dove l’impronta dell’uomo è più marcata, la perdita di biodiversità vegetale potenziale è maggiore. Non solo: gli effetti negativi si propagano anche lontano dalle aree urbanizzate, arrivando a colpire zone che sembrerebbero intatte, comprese riserve naturali e parchi.

Aree protette: un argine che funziona (ma non basta)

Nei territori inclusi in aree protette, la situazione è decisamente migliore. Qui si ritrova in media più di un terzo delle specie potenzialmente compatibili con l’ambiente locale. Le assenze, in questi casi, sono spesso dovute a cause naturali, come la difficoltà di dispersione dei semi o limiti biologici.

Tuttavia, anche questi territori non sono immuni agli effetti della pressione esterna. Ecco perché è fondamentale non limitarsi alla protezione dei confini delle aree naturali, ma considerare l’intero contesto paesaggistico e ambientale che le circonda.

Un nuovo modo di misurare la natura

Finora, per valutare la biodiversità di un’area, si contavano semplicemente le specie presenti. Ma questo metodo si è rivelato insufficiente. L’introduzione del concetto di “diversità oscura” permette invece di stimare il potenziale ecologico completo di un ecosistema, e di capire quanto la presenza umana lo abbia compromesso.

Questo approccio non solo migliora la qualità delle ricerche scientifiche, ma offre uno strumento pratico per pianificare il ripristino ambientale: se sappiamo quali specie mancano, possiamo intervenire per reintrodurle e favorire la rigenerazione degli ecosistemi.

La sfida della conservazione: agire su scala locale e globale

«Questo studio dimostra chiaramente che le attività umane stanno compromettendo in modo significativo la biodiversità, e che è urgente potenziare le politiche di tutela ambientale», spiega il professor Chiarucci dell’Università di Bologna. «Serve un impegno deciso per aumentare il numero e l’estensione delle aree rigorosamente protette, dove la natura può seguire i suoi ritmi senza interferenze.»

Il professor Chiarucci è anche coordinatore dello Spoke 4 del National Biodiversity Future Center (NBFC), insieme con il professor Paolo Rondinini dell’Università di Roma. Questo centro nazionale di ricerca sta lavorando per definire scenari futuri di pianificazione e gestione della conservazione in Italia, con l’obiettivo di proteggere il 30% del territorio entro il 2030, in linea con gli impegni internazionali.

Proteggere ciò che c’è, recuperare ciò che manca

Lo studio DarkDivNet rappresenta un punto di svolta nella comprensione della biodiversità. Ci mostra non solo ciò che la natura conserva, ma soprattutto ciò che ha perso, e che potremmo ancora recuperare. La “diversità oscura” diventa così una bussola per guidare azioni concrete, dentro e fuori le aree protette, verso un futuro più verde e più giusto per tutti gli esseri viventi.

Numero verde ONA

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