mercoledì, Maggio 21, 2025

“Breath”, il grido del mare soffocato dalla crisi ambientale

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IN UN MONDO DOVE L’OCEANO PERDE VOCE E VITA, “BREATH” DIVENTA RACCONTO NECESSARIO. UN VIAGGIO TRA DENUNCIA E SPERANZA, CHE INTRECCIA AMBIENTE E MEMORIA FAMILIARE, PER RICORDARCI CHE SALVARE IL MARE SIGNIFICA SALVARE NOI STESSI

“Breath”, il film che denuncia la crisi dell’oceano e chiama all’azione

Il 5 maggio arriva nelle sale “Breath”, il documentario di Ilaria Congiu che affronta il collasso degli ecosistemi marini attraverso una narrazione personale e militante.

Dopo i primi passaggi nei festival internazionali, il film si propone al grande pubblico con un messaggio chiaro: l’oceano sta soffocando e l’umanità è responsabile.

Un film tra denuncia e attivismo

La pellicola nasce da una produzione consapevole e impegnata, che unisce linguaggi artistici e attivismo ecologico. Legambiente Italia ed Extinction Rebellion Italia hanno collaborato al progetto.

Entrambe le organizzazioni si battono da anni contro la crisi climatica e per la difesa dell’ambiente, portando la voce della scienza e della cittadinanza nelle piazze e nelle istituzioni.

Il documentario è una co-produzione italo-tunisina tra Mediterraneo Cinematografica e Propaganda, distribuita da Mescalito Film. Alterna testimonianze emotive e dati concreti, senza retorica né semplificazioni.

«Breath non è solo un documentario, è un invito a riflettere su come le nostre azioni quotidiane influenzano il mondo che ci circonda – afferma Ilaria Congiu -. Ho voluto raccontare le storie di chi vive il mare da vicino, chi lo ha visto cambiare e, soprattutto, chi lotta per proteggere l’ambiente. Il mare non è solo un ecosistema, ma una parte di noi, della nostra identità».

Un oceano che soffoca

Breath racconta la crisi ambientale dei mari attraverso gli occhi di chi la vive ogni giorno. Tra questi, la regista stessa e suo padre, legati da una lunga esperienza sul campo.

Congiu costruisce un percorso di consapevolezza che tocca tre Paesi e si interroga sulle conseguenze ambientali e sociali di modelli produttivi insostenibili.

Il film si snoda tra Italia, Tunisia e Senegal, Paesi uniti dallo stesso destino marino: un mare sovrasfruttato, inquinato e silenziato da decenni di pesca intensiva e incuria.

I “figli del mare”: testimoni della crisi

Al centro della narrazione ci sono le testimonianze dei “figli del mare”: pescatori, attivisti e comunità costiere colpite da un cambiamento che minaccia la loro sopravvivenza.

La regista affronta temi complessi come la pesca industriale, l’inquinamento dei fondali e gli effetti del riscaldamento globale sugli ecosistemi costieri e sulla biodiversità.

Un viaggio tra passato e presente

Cresciuta in Senegal, figlia di un imprenditore del settore ittico, Ilaria Congiu ha vissuto fin da bambina tra banchine, barche e reti da pesca.

Il mare è stato per lei compagno e rifugio. Ma con il tempo, ha iniziato a percepirne il silenzio crescente, l’assenza di vita, la perdita irreversibile.

Quel senso di vuoto l’ha portata a riflettere sul ruolo della propria famiglia nel depauperamento degli oceani e ad avviare un’indagine interiore e documentaristica.

La consapevolezza di un sistema insostenibile

Il viaggio che ne scaturisce attraversa tre nazioni. Lungo il percorso, la regista incontra cinque testimoni chiave, legati al mare da storie di sopravvivenza, lotta e resistenza.

Attraverso i loro racconti, emerge un quadro chiaro delle contraddizioni tra economia predatoria, tradizione familiare e ricerca di sostenibilità ambientale.

Congiu non si limita a osservare, ma si espone in prima persona. Dialoga con suo padre, ne raccoglie i dubbi e le riflessioni, e li integra nella sua opera.

“Quel giorno ho iniziato a scrivere”

Fin da piccola ha ricevuto un’educazione ambientale rigorosa: le punizioni erano legate al rispetto delle risorse, come il semplice gesto di spegnere la luce.

Ricorda con commozione i piccoli squali sul fondale, oggi scomparsi. La loro assenza diventa simbolo della devastazione marina silenziosa e costante.

Partecipando a missioni di Sea Shepherd nel Mediterraneo, ha vissuto in prima linea le ferite dell’ecosistema. Lì ha scoperto le gabbie per i tonni, che credeva illegali.

E si è sentita un tonno nella gabbia lei stessa, rivela a “cinemaitaliano.info”. «Quel giorno ho iniziato a scrivere – il testo che poi è diventato un film -, sono stati necessari quattro anni», racconta la regista.

La responsabilità collettiva

L’intento iniziale era concentrarsi sulla pesca artigianale e su quella illegale. Congiu si chiedeva come può un pescatore andare contro le regole. Le risposte che ha trovato l’hanno condotta oltre: a un’assunzione collettiva di responsabilità.

Un documentario che vuole costruire e non spaventare

Il suo obiettivo non è fornire dati o ammonire. Vuole mostrare la bellezza del mare, raccontarla in modo nuovo, accessibile, giocoso e costruttivo.

“Guardare i documentari sul cambiamento climatico mi dava ansia. Non riuscivo a finirli. Ho voluto creare qualcosa che lasciasse speranza”, spiega.

Le reazioni nei festival riflettono sensibilità culturali diverse. In Europa le hanno detto di essere troppo ottimista. In Africa l’hanno trovata catastrofica.

“Questo dimostra quanto siamo diversi nel percepire il rischio e il futuro. E quanto sia urgente parlarne”, conclude Congiu.

Un grido silenzioso per salvare il mare

Breath non è solo un film, ma un grido silenzioso che attraversa le onde. Invita tutti a fermarsi, ascoltare e agire. Prima che sia troppo tardi.

Numero verde ONA

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