NEL CUORE DELL’OCEANO PACIFICO, TRA CORRENTI VORTICOSE E UN’IMMENSA DISTESA DI PLASTICA, SI NASCONDE UN ECOSISTEMA SORPRENDENTE. QUESTO LUOGO, CONOSCIUTO COME LA GREAT PACIFIC GARBAGE PATCH, È SPESSO CONSIDERATO SOLO UNA DISCARICA GALLEGGIANTE DI RIFIUTI. TUTTAVIA, RECENTI STUDI HANNO RIVELATO CHE, CONTRO OGNI PREVISIONE, QUEST’ISOLA DI IMMONDIZIA OSPITA UNO STRAORDINARIO HABITAT MARINO
Conosciamo l’isola di plastica
La Great Pacific Garbage Patch, nota anche come “l’isola di Rifiuti del Pacifico”, si trova tra la costa occidentale del Nord America e le isole Hawaii, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico settentrionale.
La regione è delimitata dal North Pacific Gyre, cioè un sistema di correnti e vortici oceanici che si formano grazie alla combinazione di venti, rotazione terrestre (effetto di Coriolis) e il movimento delle acque. In pratica, i vortici agiscono come enormi “trappole” naturali, che raccolgono e trattengono tutto ciò che vi entra, inclusi i rifiuti marini, poiché la rotazione delle correnti li spinge verso il centro della corrente stessa, dove si accumulano.
L’isola di rifiuti
La Great Pacific Garbage Patch è composta da circa 1.800 miliardi di frammenti, con un peso complessivo di circa 80milioni di chilogrammi. Per dare un’idea, l’area ricoperta dall’immondizia è grande tre volte la Francia.
Tuttavia, contrariamente a quanto il nome potrebbe suggerire, non si tratta di un’isola compatta e solida, fatta di rifiuti ben visibili in superficie. La maggior parte di essi, soprattutto microplastiche, galleggiano sotto il livello dell’acqua. Ma la cosa più curiosa è che, nonostante l’apparente devastazione ambientale, l’isolotto non è un deserto biologico.
A svelarlo, alcuni studi condotti da organizzazioni scientifiche e ambientaliste, tra cui Ocean Cleanup Foundation, fondata dall’imprenditore olandese Boyan Slat e NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration). Ma c’è di più…
La traversata a nuoto da record
Nel 2018, il nuotatore francese Ben Lecomte ha intrapreso una traversata di oltre 500 chilometri, chiamata “The Vortex Swim”, nell’area dell’”Isola di Plastica”, con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’inquinamento derivato da questo materiale. Ebbene, il francese e il suo team hanno raccolto dati e campioni di microplastiche per aiutare la comunità scientifica a comprendere meglio la portata del problema.
Risultato? Gli studi condotti hanno rivelato una sorprendente abbondanza di vita marina.
La vita nascosta tra i rifiuti
Tra le forme di vita che popolano quest’area ci sono molluschi come il Glaucus atlanticus, noto come “drago blu”, e le velelle, piccole meduse galleggianti che ricordano barchette. Rebecca Helm, biologa marina della Georgetown University di Washington DC (Stati Uniti), sottolinea che «questi luoghi, che abbiamo iniziato a chiamare “isole di rifiuti“, sono ecosistemi estremamente rilevanti che conosciamo ancora troppo poco».
Il drago blu, ad esempio, si nutre delle meduse e si ricopre delle loro cellule urticanti per proteggersi dai predatori. La lumaca viola Janthina janthina utilizza invece bolle di bava per galleggiare. Questi organismi mostrano come la vita possa adattarsi a condizioni estreme, trovando rifugio e risorse anche nei luoghi più inospitali. Ma come si può spiegare questo fenomeno?
Impatto e adattamento
L’ecosistema della Great Pacific Garbage Patch presenta una serie di adattamenti sorprendenti. Molti degli organismi che vi abitano sono neuston, cioè vivono appena sopra o sotto la superficie dell’acqua. Questo habitat offre loro vantaggi specifici, come la protezione dai predatori e l’accesso a correnti che possono trasportare nutrimenti.
«Questa abbondanza di forme di vita è davvero notevole, non solo perché la plastica è considerata nociva per la vita negli oceani, ma anche perché la concentrazione di sostanze nutritive è molto bassa», osserva A.W. Omta, oceanografo della Case Western Reserve University di Cleveland, nell’Ohio. In pratica, la vita marina in queste aree riesce a sopravvivere nonostante l’apparente scarsità di nutrienti. Cosa che suggerisce un adattamento unico a condizioni avverse.
Un ecosistema antico e il suo futuro
Secondo Rebecca Helm, «è probabile che questo ecosistema esista da migliaia o persino milioni di anni, ben prima dell’arrivo della plastica».
Gli scienziati stanno cercando quindi di capire in che modo le microplastiche e gli altri rifiuti abbiano alterato un ecosistema preesistente e come le forme di vita marine abbiano reagito a questi cambiamenti.
Le ricerche indicano che questo materiale potrebbe avere conseguenze profonde sugli ecosistemi marini. Ad esempio, Helm avverte che «trascinare enormi reti da pesca in quest’area potrebbe danneggiare gravemente la vita marina», poiché la rimozione della plastica rischia di compromettere gli ecosistemi già esistenti. Questo solleva la necessità di bilanciare gli sforzi di bonifica con la conservazione degli organismi che si sono adattati a queste condizioni.
A rimarcare la criticità delle operazioni è anche Mark Gibbons, biologo marino. «Normalmente, invieremmo una grande nave da ricerca e preleveremmo campioni con le reti». Tuttavia, la delicatezza di organismi fragili e trasparenti come il neuston rende il campionamento complicato.
Future spedizioni saranno fondamentali per comprendere meglio gli effetti dei materiali plastici sugli oceani e come la vita marina risponda ai cambiamenti stagionali e all’inquinamento. Helm conclude che sarà necessario esaminare da vicino questi organismi per capire come si integrano nell’ecosistema oceanico complessivo.
In conclusione, la Great Pacific Garbage Patch non è solo un accumulo di immondizia, ma un ecosistema vivente che sfida le nostre aspettative e ci invita a riflettere sul nostro impatto ambientale. Esplorare e comprendere meglio questi luoghi potrebbe rivelare segreti fondamentali per la protezione dei nostri oceani e delle sue straordinarie forme di vita.