DAL 31 OTTOBRE 2024 AL 30 MARZO 2025, IL MUSEO NAZIONALE DELLA MONTAGNA DI TORINO OSPITA UNA MOSTRA UNICA NEL SUO GENERE: “ERA COME ANDARE SULLA LUNA. K2 1954”. ORGANIZZATA IN COLLABORAZIONE CON IL TRENTO FILM FESTIVAL, L’ESPOSIZIONE CELEBRA I 70 ANNI DALLA STORICA SPEDIZIONE ITALIANA AL K2
Il K2, un gigante di roccia e ghiaccio
Il K2 o Chogori, conosciuto anche come Monte Godwin-Austen, è la seconda montagna più alta del pianeta, con i suoi imponenti 8.611 metri di altitudine. Situato nella maestosa catena del Karakorum, rappresenta una delle vette più inaccessibili e affascinanti al mondo.
Questo gigante di roccia e ghiaccio si erge al confine tra il Gilgit-Baltistan in Pakistan e la Provincia Autonoma Tagica di Tashkurgan nello Xinjiang cinese, in un’area remota e ostile caratterizzata da ghiacciai, come il Baltoro, e valli profonde.
Origine del nome
L’origine del nome “K2” risale al 1856, durante una campagna di rilevamento condotta dal geografo britannico Thomas Montgomerie. In quella circostanza, l’inglese catalogò le cime principali del Karakorum, utilizzando una semplice nomenclatura basata sull’ordine di rilevamento. La lettera “K” indicava appunto il Karakorum e il numero “2” designava la seconda vetta catalogata.
A differenza di altre grandi montagne, il K2 non possiede un nome locale specifico, poiché la sua posizione isolata lo rende invisibile dai centri abitati più vicini. Questa assenza di un nome tradizionale contribuisce al fascino misterioso che lo circonda.
Un soprannome che è tutto un programma
Soprannominato “La Montagna Selvaggia”, il K2 è noto per essere estremamente difficile da scalare. Il tasso di mortalità tra coloro che hanno tentato la scalata è notevolmente più alto rispetto all’Everest. Ciò, a causa delle vie tecnicamente complesse e delle condizioni atmosferiche instabili.
La montagna emerge quindi come un monolito di difficoltà tecnica e pericolo. La sua remota posizione rende inoltre il viaggio verso il campo base già di per sé un’impresa.
Gli alpinisti devono affrontare un ambiente naturale inospitale.
Esso è infatti caratterizzato da temperature glaciali, condizioni meteorologiche altamente imprevedibili e ogni percorso presenta sfide estreme, con passaggi pericolosamente esposti, seracchi instabili e crepacci profondi.
Uno degli eventi più significativi nella recente storia del K2 è la prima ascensione invernale, compiuta il 16 gennaio 2021 da un gruppo di dieci alpinisti nepalesi. Le difficoltà della scalata in inverno, con temperature estremamente basse e venti fortissimi, hanno reso questa conquista un esempio supremo di coraggio e determinazione umana.
Il cimitero degli scalatori
La vetta ospita quello che è comunemente chiamato il “Cimitero del K2”. Lungo le sue pendici e nelle vicinanze del campo base, riposano infatti i corpi di numerosi alpinisti che hanno perso la vita tentando di conquistare questa montagna leggendaria.
Le condizioni ambientali estreme rendono spesso impossibile il recupero delle salme, che rimangono quindi come monumenti silenziosi, testimoni di imprese coraggiose e, talvolta, tragiche.
Una delle storie più emblematiche riguarda Art Gilkey, un alpinista americano che partecipò alla spedizione del 1953. L’uomo fu colpito da una trombosi venosa profonda a un’altitudine elevata, una condizione che gli impediva di proseguire. I suoi compagni tentarono disperatamente di riportarlo in salvo, ma durante la discesa una valanga li travolse. Il corpo di Gilkey, che venne trovato più tardi nel ghiaccio, fu sepolto tra le rocce da coloro che sopravvissero. Oggi, la sua tomba improvvisata è diventata un simbolo di sacrificio e cameratismo, con una semplice iscrizione che ricorda il suo coraggio.
Un’altra figura leggendaria è quella dell’austriaco Hermann Buhl, famoso per la sua solitaria scalata al Nanga Parbat, che trovò la morte durante un tentativo di scalare il K2 lungo la difficile cresta dello “Sperone degli Abruzzi” nel versante pakistano.
Anche Mihály Csáky, un alpinista ungherese, è tra coloro che riposano sulla montagna. La sua storia è particolarmente toccante: perse la vita nel tentativo di salvare un compagno in difficoltà.
Una delle tragedie più recenti e sconvolgenti è quella del 2008.
Una serie di incidenti causò infatti la morte di undici alpinisti in una sola spedizione. Tra le vittime, il famoso alpinista irlandese Gerard McDonnell, che perse la vita mentre tentava di aiutare altri scalatori. Ma veniamo alla mostra.
“Era come andare sulla luna. K2 1954”
La mostra “Era come andare sulla luna. K2 1954” trova la sua sede definitiva al Museo Nazionale della Montagna di Torino, dopo una prima presentazione al Trento Film Festival. Allestita sul Monte dei Cappuccini, questa esposizione unica non solo celebra la storica spedizione italiana al K2, ma approfondisce anche gli aspetti meno noti di quell’impresa straordinaria attraverso nuovi dettagli e materiali d’archivio.
Il percorso espositivo si integra con la sezione permanente del museo dedicata alla spedizione del 1954, offrendo una narrazione coinvolgente che combina documenti, attrezzature originali, fotografie, pubblicità e registrazioni storiche dell’epoca.
A coronare l’esperienza, un’installazione del collettivo D20 ART LAB propone una riscrittura del celebre film Italia K2 di Marcello Baldi, arricchendo ulteriormente la visione della leggendaria impresa. Ma conosciamo la storia di questa spedizione.
L’antefatto
L’aspirazione italiana di conquistare il K2 affonda le sue radici nelle prime avventure alpinistiche verso l’Asia. Già nel XVIII secolo, i gesuiti italiani si spinsero fino al Tibet, dando inizio a un legame esplorativo con le alte vette dell’Oriente.
In seguito, pionieri come Osvaldo Roero di Cortanze e il Duca degli Abruzzi intrapresero viaggi d’alta quota che rafforzarono l’idea di una speciale connessione italiana con il K2, considerato una montagna “nostra” e destinata a essere scalata dagli italiani.
Negli anni, spedizioni alpinistiche condotte da francesi, inglesi e tedeschi tentarono di raggiungere la vetta, eppure il K2 restava una cima inviolata e ostile, che richiedeva abilità eccezionali e resistenza straordinaria. Con i suoi pendii scoscesi, ghiacciai imprevedibili e condizioni climatiche brutali con venti che superano i 200 km/h e temperature che possono scendere oltre i – 40ºC, questa montagna rappresentava una prova estrema.
L’aria rarefatta, a quell’altitudine, rendeva ogni passo estenuante e imponeva non solo una resistenza fisica superiore, ma anche una forza mentale incrollabile.
Quando il team italiano, guidato da Ardito Desio, si preparò alla grande impresa del 1954, si trovò di fronte a sfide quasi insormontabili. Oltre agli ostacoli naturali, dovevano affrontare le incertezze del meteo, il rischio costante di valanghe e la presenza di crepacci nascosti.
Ma per questi alpinisti, raggiungere la vetta significava ben più di un successo personale; rappresentava il culmine di un lungo cammino di scoperte e un simbolo di tenacia e orgoglio nazionale. Di conseguenza, decisero di intraprendere la rischiosa avventura.
La spedizione del K2: una sfida epocale
L’impresa, guidata dall’esploratore e geologo e culminata il 31 luglio 1954 con la conquista della vetta da parte di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, segnò un momento epocale per l’alpinismo italiano e mondiale. Questo successo, secondo le parole di Lacedelli, “era come andare sulla Luna” e rappresentava un sogno realizzato per un’Italia desiderosa di riscatto dopo le ferite della guerra.
Gli eroi del K2: l’arrivo e l’accoglienza in Italia
Il 3 settembre 1954, l’aereo che riportava in patria gli alpinisti del K2 atterrò all’aeroporto di Linate.
Gli eroi, neanche a dirlo, furono accolti da una folla entusiasta pronta a celebrare l’impresa. Achille Compagnoni, che aveva riportato gravi ferite riportate alle mani, divenne simbolo di dedizione e sacrificio. I giornali dell’epoca dedicarono titoli entusiastici alla conquista e per giorni l’Italia intera parlò di questa vittoria epica sulle vette himalayane.
Anche scrittori come Dino Buzzati descrissero l’impresa con parole appassionate, evidenziandone il significato storico e simbolico in un Paese che, nel dopoguerra, cercava nuove ragioni di orgoglio e riscatto. Il successo della spedizione consolidò la reputazione dell’alpinismo italiano.
Offrì, inoltre, all’Italia un’importante fonte di orgoglio collettivo, trasformando i protagonisti in eroi nazionali. In pratica, il trionfo al K2 risuonava con un senso di appartenenza che andava oltre l’impresa sportiva: rappresentava un simbolo di resilienza, determinazione e progresso per un’intera nazione.
Per preparazione e innovazione “era come andare sulla Luna”
La spedizione del 1954 segnò anche un importante avanzamento nella tecnologia delle attrezzature alpinistiche. Grazie alla collaborazione con aziende italiane, furono creati materiali innovativi e all’avanguardia per affrontare le condizioni estreme del K2.
Tra questi, gli scarponi con suola Vibram, sviluppati con una mescola di gomma che garantiva un’aderenza eccezionale anche su terreni scivolosi e ghiacciati, divennero uno strumento essenziale per la scalata.
Le tende leggere ma altamente resistenti, erano costruite per sopportare i venti fortissimi e il freddo intenso dell’alta quota, così da fornire riparo e stabilità agli alpinisti anche in situazioni critiche.
Inoltre, l’abbigliamento in piumino d’oca piemontese, fornito da aziende come Tettamanti e Molina, offriva un isolamento termico indispensabile, in grado di proteggere gli scalatori dalle temperature che scendevano ben sotto lo zero.
Un altro elemento essenziale fu l’uso di bombole d’ossigeno, che permise agli alpinisti di affrontare l’aria rarefatta delle altitudini estreme. Questi dispositivi erano progettati per essere il più leggeri possibile, facilitando il trasporto e riducendo la fatica durante la salita.
Le corde prodotte da Gottifredi-Maffioli, resistenti e affidabili, garantirono maggiore sicurezza sui pendii scoscesi e tra i crepacci nascosti del ghiacciaio.
Ogni componente dell’equipaggiamento fu testato sul campo e i risultati contribuirono in modo significativo a migliorare le tecnologie per l’alpinismo. Cosa che influenzò l’evoluzione futura delle attrezzature per le spedizioni d’alta quota.
Ma come ogni grande storia, anche la spedizione italiana al K2 non fu priva di ombre e contrasti.
Le polemiche e l’eredità dell’impresa
Dietro il successo epico del 1954, infatti, si celavano controversie che avrebbero segnato la memoria dell’impresa. Le dispute sorsero soprattutto attorno ai rapporti tra i protagonisti e alle diverse interpretazioni dei fatti: dalle decisioni prese durante la salita, agli onori attribuiti ai singoli alpinisti, ogni aspetto divenne oggetto di polemica.
Il ruolo di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, primi a raggiungere la vetta e il contributo di altri membri come Walter Bonatti furono ripetutamente rivisitati, riaccendendo discussioni e portando alla luce tensioni sopite. Questi contrasti rivelavano non solo le sfide dell’alpinismo, ma anche la complessità delle relazioni umane e le dinamiche di squadra in situazioni estreme.
A settant’anni di distanza, la mostra “Era come andare sulla Luna. K2 1954” offre quindi una rilettura di quella straordinaria impresa. Più che riaprire antiche ferite, l’esposizione invita a guardare oltre le divisioni per apprezzare l’impresa come un simbolo di resilienza e unità collettiva.
Attraverso cimeli storici, fotografie e installazioni, la mostra restituisce la dimensione di una spedizione che, pur segnata da contrasti, ha unito gli italiani in un momento di rinnovato orgoglio nazionale.
Il visitatore si trova così immerso non solo nella storia dell’alpinismo italiano, ma in una riflessione più ampia sul senso dell’avventura, dell’unità e relativo superamento dei limiti umani. Nonostante le controversie, la conquista del K2 rimane una testimonianza di come il desiderio di esplorare l’ignoto e superare l’impossibile sia un’eredità collettiva, capace di parlare sia alle ambizioni sia alle vulnerabilità umane, lasciando a ognuno la libertà di trarne ispirazione e nuovi significati.