L’attenzione all’ambiente e alle problematiche ambientali sta crescendo negli ultimi anni. Anche le aziende, infatti, si sono accorte che il consumatore, durante l’acquisto, è più meticoloso nella scelta del prodotto.
Ciò è confermato anche dall’indagine svolta nel 2020 sulla sostenibilità e le preoccupazioni ambientali #WhoCaresWhoDoes, realizzata da GfK. I risultati evidenziano come un numero crescente di acquirenti, soprattutto tra i più giovani, sta cambiando le proprie abitudini d’acquisto per effetto della crescente sensibilità ai temi ambientali. Il 30% dei consumatori dichiara di evitare i prodotti con imballaggi in plastica. Il 36% ha smesso di comprare alcuni prodotti a causa del loro impatto negativo sull’ambiente. Infine il 62% degli italiani preferisce comprare prodotti di aziende che dimostrano attenzione all’ambiente.
Questa tendenza ha determinato quindi un cambio di rotta da parte delle imprese. Alcune di esse hanno adottato politiche per ridurre l’impatto ambientale del proprio processo produttivo, altre invece hanno scelto di intraprendere una strategia di comunicazione chiamata Greenwashing.
Che cosa significa il termine Greenwashing?
Il Greenwashing è un neologismo che nasce dalla combinazione di due parole:
- green, che in inglese indica il colore verde, tradizionalmente associato all’ambiente e al movimento ambientalista;
- whitewashing, che in inglese significa imbiancare o, in senso figurato, dissimulare e nascondere qualcosa.
Questo termine denota, perciò, il tentativo di un’impresa di “tingersi di verde”, cioè di autoproclamarsi sensibile verso le tematiche relative alla sostenibilità, nascondendo, invece, comportamenti dannosi nei confronti dell’ambiente.
In altre parole la strategia di comunicazione di queste imprese, organizzazioni o istituzioni politiche è finalizzata a costruire un’immagine ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, al solo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti. Si fa quindi un uso disinvolto di richiami all’ambiente nella comunicazione di prodotto, nonostante non si siano adottate politiche aziendali che abbiano risultati reali e credibili sul fronte del miglioramento dei processi produttivi adottati o dei prodotti realizzati.
In questo modo l’impresa mira a conseguire un posizionamento incentrato sulla sostenibilità ambientale, ottenendo un miglioramento in termini di immagine e di fatturato, senza che vi corrisponda un modo di operare sostanzialmente diverso, in grado di ridurne l’impatto ambientale.
Gli effetti negativi della strategia di Greewashing
La pratica del Greenwashing non è un fenomeno solo attuale. Esistono esempi di questa strategia risalenti agli anni ’90. Infatti già in quegli anni alcune grandi aziende americane chimiche petrolifere, come Chevron o DuPont, cercarono di spacciarsi come eco-friendly per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dall’elevato inquinamento che producevano.
Attualmente non vi è nessuna legge specifica che sanzioni questo comportamento scorretto. Tuttavia, in Italia, il Greenwashing viene considerato pubblicità ingannevole. Quindi è sotto il controllo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
Sono state già emesse diverse sentenze di condanna per alcune aziende che hanno fatto uso di questa strategia. Un esempio è la Snam, che è stata condannata nel 1996 per il suo slogan “Il metano è natura”.
L’uso di questa pratica non comporta solo conseguenze penali, ma si possono avere anche effetti rilevanti in termini di reputazione aziendale e rapporto con la concorrenza. La Brand Reputation, infatti, incide per il 25% sul valore aziendale. Perciò il Greenwashing, anche se risulta efficace nel breve periodo, può, nel tempo, far perdere credibilità nei confronti del consumatore.
Come riconoscere il Greenwashing da parte delle aziende?
Come può un consumatore riconoscere che un prodotto o marchio sia realmente eco-friendly? Il miglior modo è quello di accertarsi della reale sostenibilità delle aziende, compiendo delle ricerche riguardo le politiche di sostenibilità ambientale attuate e sul modo in cui vengono applicate durante tutto il processo lavorativo.
In alternativa si può controllare se le imprese sono in possesso di determinate certificazioni ambientali. Per esempio c’è EMAS, Eco-Management and Audit Scheme. Questo è uno strumento creato dalla Comunità europea, al quale possono aderire volontariamente le organizzazioni per valutare e migliorare le proprie prestazioni ambientali. In questo modo forniscono al pubblico e ai soggetti interessati informazioni sulla propria gestione ambientale.
Un’altra certificazione è la ISO 14001. Questa sigla identifica la standardizzazione sui sistemi di gestione ambientale dell’Organizzazione internazionale, che fissa determinati requisiti da rispettare. Infine esiste anche il GRS, ovvero Global Recycled Standard, che riguarda, invece, chi produce i propri prodotti con materiali da riciclo e con attività manifatturiere. Questa certificazione attesta l’impegno delle imprese a rispettare i criteri ambientali e sociali su tutta la filiera produttiva.
Come identificare chi “pecca” di Greenwashing
Altri fattori, cui il consumatore deve prestare attenzione, sono indicati nella lista dei cosiddetti “the Sins of Greenwashing”, stilata da TerraChoice:
- trade off nascosto, ovvero enfatizzate singole caratteristiche dei prodotti pubblicizzati, ritenendole di per sé sufficienti a classificarli come prodotti green, tralasciando invece altri aspetti più importanti in un’ottica di sviluppo sostenibile;
- mancanza di prove, cioè non vengono forniti informazioni o dati significativi a supporto di quanto dichiarato nel messaggio pubblicitario oppure vengono indicate delle certificazioni che non sono riconosciute da organismi terzi accreditati e autorevoli;
- vaghezza sulle indicazioni del prodotto, che sono generiche possono essere fraintese dai consumatori;
- inserire etichette false o presentare un prodotto con parole o certificazioni contraffatte;
- irrilevanza, ovvero si presentano ai consumatori affermazioni ambientali non rilevanti;
- il peccato del “minore dei mali”, che consiste in un’indicazione che può essere vera per la specifica categoria di prodotto, ma che rischia di distrarre il consumatore dagli effetti ambientali maggiori della categoria nel suo complesso;
- asserzioni ambientali che sono semplicemente false.
La scelta nobile di un marketing sostenibile
Diversamente alcune aziende cercano di applicare azioni concrete per ridurre l’impatto ambientale della propria filiera produttiva.
Attuare uno sviluppo sostenibile vuol dire permettere all’uomo di soddisfare i propri bisogni, senza però compromettere questa stessa possibilità alle generazioni future. La sostenibilità è composta da diversi aspetti, tra loro interdipendenti. Dal punto di vista ambientale, è indispensabile utilizzare le risorse ad un ritmo tale da far sì che si possano rigenerare naturalmente. Per quanto riguarda l’aspetto sociale, invece, occorre garantire salute, giustizia e sicurezza. Infine, rispetto al lato economico, bisogna creare reddito e lavoro.
Perciò, essere un’azienda sostenibile significa gestire i rischi delle attività operative e promuovere il rispetto delle persone e dei loro diritti, dell’ambiente e degli interessi del territorio.
Tutto questo impegno da parte dell’impresa verrà poi comunicata attraverso attività di marketing sostenibile. Questa nuova variante del marketing nasce proprio dalla necessità di una riformulazione dell’offerta di mercato alla luce della crescente sensibilità sui temi ambientali. Infatti questo è un approccio al mercato volto a sviluppare e promuovere prodotti e servizi, in grado di generare un ridotto impatto ambientale comparativamente alle alternative offerte sul mercato.