Manuale sugli allevamenti di tigri in cattività
“Oggi, 3890 tigri vivono ancora in libertà. Sono 8mila, invece, gli esemplari reclusi in cattività, tenuti e allevati per usi commerciali, inclusi i selfie con i turisti”.
La loro prigionia viene motivata dalla volontà di preservare gli animali dalla caccia e dalla distruzione delle foreste. Queste ne hanno ridotto drasticamente le popolazioni complessive. Ma dietro a questa apparente necessità si celano fini poco chiari.
“Natura Connection”: spettro della criminalità organizzata
La denuncia arriva dal WWF che, contestualmente, diffonde un report aggiornato sui rischi connessi al traffico illegale e sulla insensatezza delle strutture.
a) La tigre è solo la punta di un iceberg della “Natura Connection”. Una fitta rete di traffici illegali che si concentra proprio nei Paesi orientali.
Parliamo di uno smercio di prodotti che si nasconde dietro il trasporto di animali per rifornire zoo e circhi. Con metodi poco trasparenti in cui è difficile tracciare dati, certificazioni, permessi.
Gli interessi economici che stanno dietro a questo tipo di traffico sono ovviamente enormi.
Recenti analisi mostrano che a livello globale, tra il 2000 e il 2018, sono stati sequestrati prodotti e derivati pari a 2.359 tigri (1.142 sequestri) in trentadue Paesi diversi.
I felini uccisi alimentano il commercio di tappeti, amuleti o unguenti per la medicina tradizionale cinese.
In particolare, le ossa di tigre possono essere trasformate in pasta medicinale. Oppure fermentate in un vino che si ritiene renda il bevitore più forte e più virile. Mentre le pelli e i denti sono usati nell’arredamento e nei gioielli.
Ebbene, la creazione di tali strutture potrebbe addirittura peggiorare la situazione.
Tigri in cattività: allevamenti o lager?
b) Secondo la Global Federation of Animal Sanctuaries, la realizzazione di strutture per le tigri dovrebbe garantire assistenza continuativa ad animali maltrattati, sfruttati, abbandonati. O che comunque hanno bisogno di aiuto.
Lì non dovrebbero essere consentiti né l’allevamento né l’interazione diretta con gli animali.
Dovrebbero, invece, essere garantiti spazi adeguati a muoversi, evitando il sovraffollamento.
Ebbene, in Asia sono state documentate strutture dove allevano solo esemplari femmina. I felini vivono in recinti angusti. Sono drogati per non attaccare i turisti e alimentati con diete povere che portano all’emaciamento o all’obesità.
Secondo il WWF, queste strutture non hanno alcun tipo di funzione di conservazione della specie. Poiché gli animali che vivono al loro interno non sarebbero mai in grado di sopravvivere allo stato selvaggio.
Al contrario, potrebbero portare a eludere le leggi anti bracconaggio, finendo col favorire il commercio illegale.
Per tali ragioni, il WWF raccomanda un piano di eliminazione graduale di queste strutture. Che inizi con il blocco definitivo del commercio di tutti i prodotti fatti con parti di tigre che provengono da questi centri. Con un controllo del numero di individui presenti nelle strutture e con l’immediata chiusura di ulteriori allevamenti illegali.
Un manuale sul commercio (illegale) delle tigri
Ma analizziamo il manuale incriminato. Il Segretariato della Convenzione sul commercio internazionale delle specie di flora e fauna selvatiche minacciate di estinzione (CITES), ha commissionato il discusso documento.
Per inciso, il CITES è un trattato globale firmato da 183 Stati membri che regola il commercio transfrontaliero di animali e piante in pericolo. Condiviso con National Geographic e preliminarmente intitolato “Manuale di ispezione per strutture di allevamento di tigri in cattività”, la bozza sembrerebbe legittimare l’allevamento di tigri in cattività. Purché siano conformi alle regole internazionali.
In effetti, la sua frase di apertura afferma: “L’allevamento di tigri per l’esposizione al pubblico o per la conservazione sono entrambi ampiamente riconosciuti come scopi legittimi”.
In realtà, la premessa è di per sé fallace, perché infrange alcune regole concordate a livello internazionale.
Le regole del CITES per allevamento delle tigri
Il CITES stabilisce che le tigri dovrebbero essere allevate solo per scopi di conservazione. Ma questo documento dice che l’esposizione va bene e, se il pubblico desidera vedere più tigri, è davvero giusto allevarne di più.
Dunque, nonostante le regole del 2007, gli allevamenti di tigri in alcuni Paesi sono cresciuti.
Attraverso questo documento, le parti e i prodotti delle tigri allevate in cattività potrebbero facilmente entrare nel commercio illegale. Questo complicherebbe ulteriormente gli sforzi per l’applicazione della legge.
E stimolerebbe, di fatto, la domanda da parte dei consumatori.
Premessa sbagliata e promotori del documento
Se già la premessa risulta dubbia, ancora più perplessità destano i promotori del documento.
Il rapporto è stato, infatti, condotto da Kirsten Conrad, membro dell’IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura).
Conrad ha espresso opinioni a favore del commercio e dell’agricoltura a favore delle tigri per più di un decennio.
«I divieti commerciali hanno fatto sì che le tigri valgano più da morte che da vive», ha sostenuto Conrad. «Quindi la legalizzazione della vendita di parti di tigri allevate dovrebbe essere valutata come un mezzo per portare sollievo alle tigri selvatiche. Una contesa con cui le banche e altri non sono d’accordo».
La considerazione lascia poco spazio all’immaginazione. È come affidare alla volpe l’incarico di ispezionare il pollaio alla ricerca di punti deboli.
Anche un altro coautore del rapporto, Hank Jenkins, ha scritto a favore del commercio delle tigri. Come Jessica Lyons, dell’IUCN Sustainable Use and Livelihoods Specialist Group (SULi) e dello IUCN SSC Boa & Python Specialist Group.
Il giudizio contrario degli esperti
Contro il documento si è levata la voce di molti esperti. Questi sostengono che tre degli autori incaricati di intraprendere il progetto sono, infatti, competenti sui rettili.
Ebbene, funzionari USA, che si oppongono agli allevamenti di tigri, sono stati informati del rapporto solo dopo che è stato condiviso con le ONG. Lo ha precisato un portavoce al National Geographic.
«La bozza di testo condivisa con le ONG presenta gravi difetti ed errori di fatto, che sono contrari agli sforzi statunitensi e internazionali per combattere il traffico di tigri». Come ha affermato il portavoce.
Molti altri scienziati ed esperti di traffico di tigri, sono stati anche loro esclusi dall’iniziativa.
La mancanza di trasparenza riguardo alla concezione e alla creazione del rapporto risulta pertanto preoccupante.
Kristin Nowell afferma che «anche l’IUCN Cat Specialist Group, composto da scienziati focalizzati sulla conservazione delle specie di felini selvatici, non è stato consultato durante la stesura. Né i membri sono stati invitati a essere coautori».
Altre voci fuori dal coro: Born Free Foundation
La Born Free Foundation, (ente di beneficenza internazionale per la fauna selvatica dedicato alla conservazione e al benessere degli animali), ha espresso un giudizio impietoso sul documento.
Il suo consulente politico senior, Gabriel Fava, ha dichiarato che i contenuti della bozza sono «grossolanamente inadatti» e «hanno pregiudizi intrinseci».
Debbie Banks, leader della campagna per i crimini contro le tigri e la fauna selvatica, afferma che «questo documento si avvicina pericolosamente alla promozione dell’allevamento di tigri. Nessuna di queste strutture ha mai reintrodotto le tigri in natura». Ha poi aggiunto Banks. «Né potrebbero, visti i problemi di consanguineità, assuefazione agli umani e mancanza di capacità di sopravvivenza».
Utile precisare, ad esempio, che la tigre del Bengala è diversa dalla tigre siberiana e che quest’ultima è diversa dalla tigre di Sumatra. “La maggior parte delle tigri di proprietà privata negli USA hanno una linea di sangue mista o ignota. Quindi non possono essere incluse nei programmi di allevamento in cattività presso le strutture e gli zoo accreditati che cercano di preservare le sottospecie”, scrive il National Grographic.
Le contraddizioni del documento e degli allevatori
Il documento evidenzia una mancanza della conoscenza della natura di questi felini. Ad esempio, il testo invita gli ispettori a contare il numero di tigri presenti “per determinare quante tigri sono detenute dalla struttura. E quali numeri sono morti e/o sono stati venduti/esportati dall’ultima ispezione”.
Ma il semplice conteggio degli animali non è sufficiente per rintracciarle.
Se una struttura macella una tigre per le sue parti, potrebbe sostituirla con un’altra della stessa età. E gli ispettori che contano il numero totale di tigri potrebbero non accorgersene.
Il documento suggerisce, inoltre, che microchip e marchi auricolari potrebbero impedire scambi di tigri, non registrati. Ma in realtà, i marchi auricolari vengono facilmente strappati quando le tigri sono alloggiate insieme.
Alcune strutture sono state anche sorprese a rimuovere microchip da esemplari morti, probabilmente con l’intenzione di riutilizzarli.
Il rapporto dice anche che gli ispettori dovrebbero “contattare il proprietario(i) e/o il manager(i) della struttura per confermare la data e l’ora dell’ispezione”. Anche questo punto desta non poche perplessità.
Le tigri allevate continueranno ad alimentare le reti transnazionali?
A quanto pare sì.
Secondo Education for Nature Vietnam (ENV) – ONG locale che segnala crimini contro la fauna selvatica – le violazioni hanno colpito 390 casi nel 2020. Con un aumento di quasi il 70% rispetto al 2019.
Conclusioni: l’azione del WWF contro gli allevamenti
Il WWF sta conducendo la sua personale campagna contro gli allevamenti di tigri dal 2016. Mentre la Wildlife Conservation Society (WCS) spera che il governo vietnamita imponga il divieto di rilasciare permessi per allevamenti di animali selvatici.
Soprattutto si chiede trasparenza e partecipazione attiva, per il bene delle tigri e di una natura sempre più massacrata dalla mano dell’uomo.