La tecnica impone di raggiungere il massimo profitto con l’impiego minimo dei mezzi, ma ci allontana sempre di più dalla natura
I vari “dogmi della liberazione” da parte della tecnica, sono diventati patrimonio esplicito della civiltà.
Essi anelano a un’indefinita tecno-liberazione da parte della “tecno-scienza”. Pensiero che, estremizzato dai fautori del transumanesimo, dovrebbe liberare l’umano da ogni sofferenza.
Ma la tecnica è davvero il Santo Graal della felicità?
E come può liberarci dalla diseguaglianza, dall’infelicità e dalla malattia?
Con la filosofia, la tecnica diventa un mezzo nelle mani dell’uomo
A cominciare da Platone, la filosofia metafisica ha messo a disposizione dell’uomo i mezzi più idonei per vivere al meglio.
Successivamente, la tecnica ha realizzato l’intenzione della filosofia, garantendo non solo la disponibilità di tali mezzi, ma anche la loro riproducibilità in serie.
Se al tempo di Heidegger, essa era tuttavia uno strumento nelle mani dell’individuo, oggi è diventata l’ambiente in cui egli vive, e l’essere umano si è trasformato in un suo esecutore: niente più che un funzionario.
La Rivoluzione Industriale sperimenta la tecnica
L’affermazione della tecnica ha trovato il suo campo di sperimentazione a partire dalla Rivoluzione Industriale.
In quel periodo, il principio di “conservazione dell’energia”, cioè la scoperta che l’energia sarebbe indistruttibile e capace di essere trasferita da un contesto all’altro, generò un’ondata di ottimismo nelle classi dominanti.
Tale principio, infatti, faceva intuire che, grazie alla tecnologia, si sarebbero raggiunti traguardi pressoché illimitati.
In effetti, la tecnica, almeno inizialmente, ci ha aperto a infinite possibilità: ha garantito il progresso, ha supportato la scienza, la medicina e ci ha, in un certo senso, facilitato la vita.
Il primo laboratorio di attuazione: la fabbrica
La fabbrica è stato il primo luogo di attuazione della tecnica. Mitizzata dai progressi ottenuti, si iniziò a credere che essa potesse aprire all’umanità, soggetta all’invecchiamento e ancora poco produttiva, la porta della salvezza.
A criticare questo “dogma” fu il “luddismo”, che oppose una strenua resistenza.
Questo movimento di protesta operaia, sviluppatosi all’inizio del XIX secolo in Inghilterra (caratterizzato dal sabotaggio della produzione industriale), iniziò a osteggiare fermamente l’antropocentrismo che poneva l’uomo al centro di tutto. Senza minimamente considerare gli effetti sulla natura.
La tecnica diventa il fine dell’uomo e non più il mezzo
Come accennato, con la Rivoluzione Industriale, la tecnica cessò di essere strumento nelle mani dell’uomo, utile alla sua evoluzione.
La tecnica divenne, invece, il fine stesso della sua (e solo sua), esistenza; il soggetto del mondo e non più oggetto della sua scelta.
Ciò si accentuò a partire dalla seconda guerra mondiale.
A rendersene conto fu Hegel, il quale aveva osservato che l’uso sconsiderato della tecnica stava portando a un mutamento qualitativo del paesaggio e a un capovolgimento tra mezzo e fine, soggetto e oggetto.
L’umanità si sta allontanando dalla Natura
La tecnica ha finito per ridisegnare l’ambiente. A tal punto che ogni nostra condotta, ogni mezzo, obiettivo e persino ogni desiderio è tecnicamente articolato e ha bisogno di essa per esprimersi al meglio. Senza, ci sentiamo persi.
Oggi più che mai, il cosiddetto “tecno-capitalismo”, condito di cibernetica, transumanesimo, modificazione genetica, ingegnerizzazione della biologia, nanotecnologie, scienze convergenti, ecc. continua a servirsi della tecnica per affermarsi sulla Natura a favore esclusivo dell’uomo.
Se è vero che la tecnica è stata una grande conquista per l’umanità, è altrettanto indiscutibile che in nome della “civilizzazione”, non si è pensato granché alla conservazione degli altri esseri viventi e non viventi, incluso l’ambiente.
Dove stiamo andando?
In realtà, nonostante la retorica della tecnica “salvifica”, ci stiamo ammalando sempre di più, per via degli effetti disastrosi del nostro operato a danno dell’ambiente.
E se le diagnosi precoci e le terapie allungano la nostra vita anche in presenza della malattia, al tempo stesso siamo diventati il popolo più debole della Terra. Proprio perchè quello più tecnicamente assistito.
Questo ci sta portando al declino e al rischio estinzione.
I dati dell’ONU parlano chiaro: nell’Occidente vive il 20 per cento della popolazione mondiale che consuma l’ 80 per cento delle risorse. Di questo passo non andremo molto lontano.
Vita selvatica contro civilizzazione
Purtroppo in difesa della “civiltà della tecnica”, è stata armata una vera e propria “propaganda”.
Basti pensare alla funzione pesudo-pedagogica di qualche film di animazione. Su tutti Madagascar (Dreamworks Animation), in cui animali selvatici, fuggiti dallo zoo di New York, riscoprono, poi, le comodità della dorata prigionia.
Gli obiettivi della tecnica
In realtà, la logica del profitto imposta dalla tecnica ha un solo obiettivo: raggiungere il massimo profitto con l’impiego minimo dei mezzi.
Ma l’uomo non è solo razionalità: è anche irrazionalità, fantasia, immaginazione, desiderio, sogno.
Heidegger sosteneva che “non è inquietante che il mondo si trasformi in un unico apparato tecnico-economico. L’aspetto più inquietante è che non siamo preparati a questa radicale trasformazione del mondo”.
Elaboriamo un pensiero alternativo
Se vogliamo davvero costruire un ambiente più sano per le generazioni future, dobbiamo elaborare un pensiero alternativo. Che non guardi solo al calcolo ma che ci porti a vivere in armonia con la Natura, che è il nostro vero mondo.
Dobbiamo riportare la tecnica alla sua funzione primaria: quella di essere il mezzo per progredire e non il fine del progresso.
In caso contrario, la sua egemonia determinerà un ribaltamento dei modi tradizionali di intendere ogni aspetto della nostra vita: la ragione, la verità, l’ideologia, la politica, l’etica, la natura, la religione e la stessa storia.
Urge una rinnovata responsabilizzazione
Come prima cosa dovremmo chiederci: è giusto considerare l’uomo unico fine e tutto il resto mezzo? L’ambiente, l’aria, l’acqua sono mezzi o fini?
Se restiamo intrappolati dall’idea di un futuro fatto unicamente di salvezza, come promettono le tecno-scienze, siamo perdenti in partenza.
La tecnica, infatti, non ha scopi di salvezza, ma mira esclusivamente all’autoaffermazione e nel rapporto uomo-macchina, la macchina ha già vinto.
La tecnica può liberarci in parte dalla fatica, guarire dalle malattie, allungare la vita media.
Ma come si gestiscono le transizioni da un modello a un altro? Come si può riempire di senso, vite che durano più a lungo?
Forse dovremmo smettere di chiederci cosa possiamo fare noi umani con la tecnica, ma riflettere su cosa la tecnica può fare di noi.
La tecnica funziona?
La tecnica esonda dalle categorie spazio-temporali, modifica il nostro modo di essere nel mondo.
L’attuale generazione ne è testimonianza: sta già sperimentando la triste condizione in cui i padri non riescono più a tramettere la loro esperienza ai figli, perché i primi sono vissuti in un mondo reale, mentre i secondi vivono in un mondo virtuale.
Tutto ciò ci sta disumanizzando: è pura distopia, una contro-utopia.
La nuova etica della responsabilità
Di fronte a questa deriva di valori, spesso ci si appella all’etica.
Ebbene, bisogna stare attenti al concetto di etica, almeno nella sua accezione “umanistica”.
Essa, infatti, non è in grado di interdire la tecnica.
Innanzitutto perché non si fa carico della natura, ma si limita a tutelare solo gli esseri umani.
Inoltre non giudica l’uomo a partire dai suoi comportamenti ma dalle sue intenzioni.
Se chiediamo agli scienziati: “a cosa serve vostra ricerca?”, probabilmente risponderanno: “non lo sappiamo”.
La loro etica è conoscere tutto quello che si può conoscere a prescindere dai risultati.
Esempio su tutti, gli studi di Fermi sulla boma atomica.
Sapere quali erano le sue intenzioni nel momento in cui lavorava sulla bomba è irrilevante. Conoscerne gli effetti è, invece, fondamentale.
La logica del profitto imposta dalla tecnica ha un solo obiettivo: raggiungere il massimo profitto con l’impiego minimo dei mezzi.
Continua a servirsi della tecnica per affermarsi sulla Natura a favore esclusivo dell’uomo.
Dall’etica dell’intenzione dobbiamo dunque spostarci all’etica della “responsabilità ecologica”.
Per farlo, dovremmo innanzitutto essere consapevoli degli effetti delle nostre azioni sulla natura. Ma questo tipo di etica dovrebbe essere interiorizzata dalla psiche, altrimenti non funziona.
Allora, diamo il via a una rivoluzione delle coscienze, al risveglio delle masse critiche.
In fondo, fortunatamente, c’è chi preferisce restare ancora dalla parte della Natura.