Il 23 maggio scorso il mondo ha festeggiato la giornata internazionale delle tartarughe. Esse rientrano tra le più antiche specie marine esistenti e, perciò, assolutamente da proteggere. Si, perchè il loro habitat d’elezione, cioè il mare, è minacciato costantemente dalla plastica “killer”
Tartarughe e non solo
Ad oggi, sono oltre settecento le specie interessate e colpite dall’inquinamento dei nostri mari. Sempre più nel mirino di ambientalisti e animalisti, la plastica!
La problematica, mondiale e dilagante, raggiunge, però, picchi di criticità in Africa e Asia, per via dell’inefficiente sistema di smaltimento dei rifiuti.
Infatti, secondo le ricerche effettuate da tantissime associazioni a salvaguardia dell’ambiente, come, ad esempio, Greenpeace, “ogni minuto, l’equivalente di un camion di plastica finisce negli oceani, provocando la morte di tartarughe, uccelli, pesci, balene e delfini, fino ad arrivare nei nostri piatti”.
E ancora, Greenpeace individua la presenza di circa otto tonnellate di plastica, nell’ecosistema marino. Come quella usa e getta, non riciclata o microplastiche (particelle di materiale plastico più piccole di un millimetro e fino a livello micrometrico).
Il tutto, poi, diventa cibo per gli animali che lo popolano, provocandone la morte per indigestione, intrappolamento, soffocamento e rilascio di sostanze chimiche.
Inoltre, secondo un recente report del WWF, circa 2.150 varietà di animali entrano sistematicamente in contatto con il materiale “killer”. “Fino al 90% di tutte le specie di uccelli marini e il 52% di tutte le tartarughe marine ingeriscono plastica”.
Quanto alle tartarughe poi, fino ad ora l’ipotesi diffusa era che esse tendessero a ingerirla, specie buste o sacchetti, per via della stretta somiglianza con il cibo. Soprattutto per forma e colore, come le meduse.
Un recente studio statunitense, invece, ha dimostrato che, in realtà, ciò che trae in inganno gli animali è l’odore della plastica.
Questo perché essa dura in mare anche secoli, per cui le alghe, i sedimenti e altri microorganismi, vi si depositano, conferendole un odore simile al cibo.
La situazione attuale dei nostri mari
Come osserva Greenpeace, “con tutta la plastica che c’è nei mari, potremmo fare quattrocento volte il giro della Terra”.
Infatti, come detto, l’invasione della plastica (specie quella monouso) nel “pianeta blu”, ha raggiunto livelli impressionanti.
L’ecosistema marino, ormai, risulta quasi come una discarica, dove i rifiuti galleggiano in superficie o si depositano sui fondali.
Sul punto il WWF ha lanciato l’allarme che, entro il 2050, l’inquinamento degli oceani sarà addirittura quattro volte superiore a quello attuale.
Gli ultimi rilievi, infatti, dimostrano che parecchie aree, tra cui il Mar Mediterraneo, la Cina orientale e il Mar Giallo, hanno già superato abbondantemente la soglia di guardia dell’inquinamento pericoloso da microplastiche.
Plastica anche sull’Everest
Le indagini, individuano tracce di plastica perfino in cima all’Everest e nell’Artico. Ciò comporta che, con lo scioglimento dei ghiacci, le microparticelle vengano trasportate nelle acque, raggiungendo i mari, i fiumi e le acque potabili.
Senza contare i residui di micro materiali anche nell’aria. Le Nazioni Unite, riferendosi all’impatto che il forte inquinamento sta avendo sugli ecosistemi marini e sulle specie, parla proprio di “crisi planetaria”.
Indicativo, sul punto, è proprio il dato relativo alla massa, in peso, di tutta la plastica sul pianeta. Essa costituisce il doppio della biomassa totale degli animali terrestri e marini messi insieme. Vale a dire una minaccia feroce alla biodiversità e alla salvezza degli ecosistemi.
I provvedimenti per arginare il disastro
Per fronteggiare la situazione, occorrerebbe un’azione sinergica della politica, aziende produttrici e consumatori, ma la strada da percorrere è ancora lunga e tante, ancora, le difficoltà.
L’UE, però, ha tentato di dare una svolta decisamente eco-friendly al problema. La Direttiva 2019/904/UE (Direttiva Sup – single use plastic), infatti, vincola gli Stati membri ad abolire o a ridurre drasticamente la produzione e l’utilizzo della plastica usa e getta.
Specie i prodotti monouso e gli attrezzi da pesca che la contengono, dato che essi rappresentano circa il 70% dei rifiuti pervenuti in mare.
Ciò al fine di contrastare l’abbandono e la dispersione della plastica nell’ambiente. Tant’è che la normativa equipara i prodotti fatti con il fossile alle bioplastiche, quindi ai compostabili, poiché entrambi sono passibili di essere gettati ovunque, senza distinzione alcuna.
Dunque, devono essere progressivamente rimossi dal commercio e utilizzati fino a esaurimento scorte, i bastoncini cotonati (cotton fioc), cannucce, piatti e posate, agitatori per bevande, aste per palloncini, tazze e contenitori per alimenti e bevande.
Invece, restano salvi altri prodotti, quali bottiglie, flaconi per saponi e detersivi, bicchieri e buste, per i quali l’UE ha disposto soltanto la riduzione del consumo.
Ma come ha recepito l’Italia questa direttiva?
Il nostro Paese ha deciso di adeguarsi (dopo ben due anni), con il Dlgs.n.196 dell ‘8 novembre 2021.
Il tutto, non senza polemiche, dubbi normativi, proteste da parte degli ambientalisti e addirittura il rischio di procedura di infrazione, al vaglio della Commissione Europea. (D’altronde, a noi piace distinguerci dalle masse!).
Già, perchè, nel suddetto decreto legislativo, l’Italia ha introdotto una serie di deroghe fortemente discusse. Tra queste, spicca il fatto di aver sostanzialmente ignorato l’equiparazione tra bioplastiche e plastiche fossili, acconsentendo alla produzione e all’uso delle biodegradabili entro certi parametri.
Cioè, essa ammette l’impiego di quegli oggetti per i quali la materia prima rinnovabile raggiunge il 40% per i primi due anni e il 60% dal 2024.
L’obiezione principale che è stata mossa a questa deroga, a parte l’inosservanza della normativa UE vincolante, è che la biodegradabilità di questi prodotti, non esclude e non risolve l’inquinamento. Si tratta lo stesso di potenziali rifiuti abbandonati in giro.
Anche per questa ragione, la Commissione Europea espresse, a suo tempo, parere circostanziato sul punto, il quale avrebbe dovuto comportare una sospensione della procedura di recepimento. Cosa che non è avvenuta.
La denuncia di Greenpeace
Greenpeace ha fortemente denunciato tutta la situazione, esortando a “monitorare gli sviluppi a livello politico e mantenere alta la pressione sulle aziende affinché si impegnino ad abbandonare la plastica usa e getta”.
L’ONG sottolinea, inoltre, come la denuncia del “legame tra l’industria del petrolio e quella della plastica, minaccia il profitto di pochi”. Ragion per cui, la politica e le lobby tendono a temporeggiare, sperando in un eventuale, possibile compromesso per tutelare alcune grandi aziende.
Greenpeace, in fine, così come il WWF e le tantissime ong che si battono per la tutela del mare e dell’ambiente, esortano costantemente i consumatori, a compiere delle scelte consapevoli e sostenibili nel quotidiano.
Perché ognuno di noi può contribuire con piccole azioni che, alla lunga, aiutano il pianeta, benché ormai qualcuno gridi alla retorica, alla demagogia o non apprezzi suggerimenti “triti e ritriti”.
Scegliere il vetro anziché altri materiali inquinanti, oppure non supportare oltre una certa fetta di mercato, può fare veramente la differenza, se fatto su larga scala