MIGLIAIA E MIGLIAIA DI ANNI FA DALL’ALTA MURGIA SCENDEVANO VERSO I MARI DI ALLORA TUMULTUOSE ACQUE CHE SCAVAVANO SUL LORO PERCORSO AMPIE DEPRESSIONI TORTUOSE COME IL LORO CORSO: LE COSIDDETTE “LAME” (prima puntata)
Prefazione
A cominciare da oggi, il nostro giornale pubblicherà, con cadenza settimanale, quattro temi ambientali, per la serie “Le lame, le grotte e gli insediamenti rupestri in Puglia”.
Testi a cura della professoressa Angela Campanella
Le quattro puntate:
Prima puntata: Le lame, le grotte e gli insediamenti rupestri in Puglia
Seconda puntata: Lama Balice e le diecimila orme: “quando a Bari passeggiavano i Dinosauri”
Terza puntata: La Civiltà Rupestre fra Ionio e Adriatico
Quarta puntata: Gli insediamenti rupestri di Fasano e Monopoli
Non perdetele.
Lama Picone, Lama Lamasinata e la Balenottera “Annalisa”, il Moby Dick pugliese di un milione e ottocentomila anni fa
Il fiume questo sconosciuto. La Puglia, in apparenza, non sembra avere acqua in superficie. L’acqua piovana, anche quella torrenziale, si perde all’istante nelle profondità della terra e, seguendo strade segrete fra grotte e cunicoli, raggiunge il mare e vi si perde. Ma migliaia e migliaia di anni fa dall’Alta Murgia scendevano verso i mari di allora tumultuose acque che scavavano sul loro percorso ampie depressioni tortuose come il loro corso: le cosiddette lame.
In questi enormi tagli nel calcare murgiano la flora e la fauna spontanee e l’apporto della presenza dell’uomo hanno creato ecosistemi e nicchie ecologiche del tutto particolari che ci raccontano, ora all’origine ora alla foce, le loro storie.
Picone, Lamasinata, Balice, Misciano, San Giorgio: sono i nomi di alcune delle numerose lame, cioè di quegli avvallamenti del terreno, estesi per chilometri, che si rinvengono nel territorio periferico di Bari, soprattutto in zone carsiche. Si tratta dei letti di antichi fiumi e attuali testimonianze delle tumultuose acque che milioni di anni fa scendevano dalla Murgia alta per sfociare in mare. Un mare a quei tempi molto più vasto dell’attuale Adriatico.
Lama Picone
Questa lama è la più “barese” di tutte. Percorre lunghi tratti in superficie, scomparendo quasi del tutto nel sottosuolo, nella zona periferica di Carbonara-Ceglie. Percorrendo lunghi tracciati sotterranei, la lama attraversa cinque quartieri della città, dando il suo nome a uno di essi.
Di tanto in tanto, in occasione di piogge torrenziali si ricrea nella lama l’antico fiume, responsabile in passato di disastrosi allagamenti, acquisendo all’improvviso una incredibile forza e portata, e terminando la sua corsa in mare. Ora lo fa in maniera non più evidente, allagando scantinati e sottovie. Quindi si esaurisce, silenziosamente e rapidamente in Adriatico, al di sotto del litorale. Soprattutto, seguendo il suo corso naturale, sotto la colmata di cemento di Marisabella. Nessuno parla più di lui e della sua mena o discesa vorticosa dalla Murgia alta al mare.
E così passa nell’oblio, con il Picone, anche l’appellativo storico attribuito a questo punto strategico della città: Marisabella. L’ansa sul mare, quella prima della Fiera del Levante, legata al nome di Isabella d’Aragona, duchessa di Bari. Che, proprio per imbrigliare il vorticoso torrente e bonificare l’area malsana a nord del castello che il suo passaggio lasciava, ordinò la messa in opera di importanti lavori di contenimento delle acque.
Si ispirò per questo ai progetti di Leonardo da Vinci, attuati nella pianura padana che lei stessa, quale sposa del duca di Milano, Giangaleazzo Sforza, aveva avuto modo di verificare. Defraudata del titolo di Duchessa di Milano, si era rifugiata nel ducato di Bari, dove aveva portato la sua grazia e le sue innovazioni.
Purtroppo la sua opera di bonifica fu spazzata via da un terribile nubifragio alla fine del XVI secolo. Si formò nel tempo, lì stesso, una zona umida, luogo di passo di uccelli migratori. Una decina di anni fa uno stormo di cormorani colonizzò il sito. Ora l’ansa di costa dedicata alla duchessa è solo una vasta piattaforma di cemento, adiacente al porto, destinata ai camion pronti per l’imbarco.
Nel suo percorso la lama Picone, grazie a un deviatore artificiale, incrocia in zona Santa Caterina, la lama Lamasinata.
Lama Lamasinata
È una delle lame più importanti che dall’area murgiana scendono verso il litorale barese. Il letto dell’antico fiume ormai scomparso. Sorge nei territori di Toritto e Grumo Appula, scende tra Palo del Colle e Bitetto, per poi toccare il territorio di Modugno e Bitritto, passando per Balsignano, e per la località in cui sorge il santuario di S. Maria della Grotta.
Da qui devia verso S. Caterina e S. Maria del Deserto. Uno dei suoi affluenti molto prossimi alla città di Bari è la Lama Gambetta, che da Modugno si ricongiunge alla Lama Lamasinata. Tutto il percorso è attraversato da grotte, insediamenti rupestri, antichi trulli e pozzi di raccolta delle acque. È popolato di flora e fauna spontanee.
Nel lontano passato il fiume che scorreva nella lama sfociava poco più a nord di Bari, nei pressi di quelle che sono ora la spiaggia di San Francesco e la scogliera di San Cataldo. Nella zona ora è visibile il Canalone, una grande lama artificiale che percorre 1,5 km prima di sfociare nel mare, poco prima del rione San Girolamo. La struttura artificiale, realizzata alla fine degli anni ’20 del Novecento, convoglia le acque piovane, prevenendo le disastrose alluvioni che in precedenza avevano più volte funestato la città.
La Lama Lamasinata, oltre che rappresentare un’area verde di particolare interesse, da rispettare e curare, parla di storia e di storie.
La più interessante di queste storie, e anche quella che attira di più l’attenzione dei ragazzi delle scuole, è sicuramente quella della Balenottera “Annalisa”.
Sembra una storia fantastica, ma è tutto vero.
Protagonisti quattro amici: Vittorio Stagnani, speleologo e giornalista; Oreste Triggiani, entomologo; Enzo Indraccolo, speleologo e Nicola Cervini. E ancora: un’archeologa, l’Università di Bari, gli organi di informazione dell’epoca, è il 1968, … e lei, “Annalisa”, la balenottera di Lama Lamasinata.
L’autrice del racconto, del quale questo è solo un brevissimo riassunto, è Vincenza Montenegro, dottore di ricerca in Storia della scienza. L’attuale e attento custode di “Annalisa” è il paleontologo Rafael La Perna che ha, della balenottera, religiosa cura nel Museo di Scienze della Terra del Dipartimento di Scienze Geologiche e Geoambientali dell’Università degli Studi di Bari.
Il professore ha fatto rivivere il racconto di “Annalisa”, con le sue delucidazioni e con le sue immagini, ai ragazzi della scuola media Eleonora Duse di San Girolamo (quartiere a nord di Bari), a due passi dal luogo del ritrovamento, inducendoli a creare disegni e persino una rappresentazione teatrale.
La balenottera “Annalisa”
Il 27 Luglio del 1968, nel tratto terminale della Lama Lamasinata, il cosiddetto “Canalone” alla periferia nord di Bari, fu fatta la sensazionale scoperta del fossile di una balenottera. Una specie che popolava il Mediterraneo 1milione e ottocentomila anni fa, quando le coste pugliesi erano sommerse dal mare e le acque erano fredde.
Lo scheletro era stato messo in luce durante gli scavi negli anni venti del XX secolo, nel corso dei lavori per la costruzione di un canale atto a convogliare le acque in caso di piene alluvionali. Per oltre quarant’anni nessuno aveva attribuito valore e importanza a quelle ossa.
Fino a quando non furono notate da un giovane speleologo, Enzo Indraccolo, che ne intuì il valore e, per identificarne la natura, chiese la collaborazione di tre amici. In un primo momento le ossa diedero loro l’impressione di appartenere a un dinosauro.
Grande fu la loro sorpresa quando, ripulendo il fossile dal terriccio, riuscirono a contare diciannove vertebre, molte costole e lunghe zanne, il tutto per una lunghezza di 10 metri.
Prudentemente i quattro conservarono il segreto sul rinvenimento. Della scoperta diedero notizia all’allora Rettore dell’Università di Bari, il professor Pasquale del Prete, che se ne interessò prontamente e si affrettò a contattare l’Istituto di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze.
Annalisa Berzi, la madrina della balenottera
La telefonata fu presa dall’archeologa Annalisa Berzi che effettuava scavi paleontologici per quella Università. La dottoressa accolse l’invito del Rettore e decise di recarsi a Bari, dove arrivò in una calda giornata di agosto. Assegnò subito il fossile alla famiglia delle Balaenoteridae e chiese la disponibilità di operai specializzati.
Il professor Vincenzo Cotecchia, direttore dell’Istituto di Geologia e Paleontologia, si rivolse all’impresa di costruzioni Matarrese che accettò il coinvolgimento nelle operazioni di scavo, chiedendo la cifra simbolica di 100 lire. Partì così la campagna di scavo. La notizia fu resa pubblica.
La Gazzetta del Mezzogiorno diffuse per prima la notizia il 6 Agosto del 1968. La Rai nazionale mandò in onda il 9 Agosto un servizio dal titolo “Bari, trovati resti di una Balena di un milione di anni fa”.
In realtà si trattava di una balenottera e, in omaggio alla dottoressa Berzi, le fu dato il nome di “Annalisa”.
“Annalisa” giaceva in uno strato di calcarenite di 20-30 centimetri. L’archeologa ipotizzò che si fosse arenata nello stesso punto in cui era stata rinvenuta. Che fosse morta nello stesso luogo e fossilizzata insieme ai sedimenti. Decise quindi di rimuoverla con lo strato roccioso che la inglobava, così da poter recuperare le impronte delle ossa mancanti per poterne ricostruire la forma. E per avere indicazioni sull’ambiente del litorale barese di due milioni circa di anni fa.
Fu quindi scavata una trincea di un metro tutto intorno al fossile che venne così isolato. Dato l’enorme peso, il blocco fu suddiviso in quattro parti per agevolarne il trasporto verso l’Ateneo. Qui fu depositato nel cortile di Via Nicolai.
Nel corso delle operazioni di recupero si rinvennero le bulle timpaniche dell’animale, cioè le ossa dell’orecchio interno. Lo studio di queste avrebbe consentito la precisa determinazione della specie di appartenenza della balenottera.
Nel 1985 l’Istituto di Geologia e Paleontologia fu trasferito dall’Ateneo al Campus, ma “Annalisa” rimase dieci anni ad attendere il trasferimento, perché i costi del trasporto erano elevatissimi.
Per fortuna intervenne il gruppo Dioguardi a sostenere le spese di trasporto dei reperti da Via Nicolai al Museo di Scienze della Terra.
Una scoperta di eccezionale valore scientifico
Ad oggi non si conosce ancora la specie cui appartiene “Annalisa”. Potrebbe rappresentare una specie estinta o un progenitore degli esemplari viventi.
Sicuramente il suo rinvenimento è stato qualcosa di eccezionale valore scientifico e deve essere impegno di tutti farla conoscere e saperla valorizzare.
Angela Campanella
Naturalista, insegnante di materie scientifiche per professione, scrittrice, storiografa e documentarista per passione. È studiosa della storia dei normanno-svevi, angioini e aragonesi, e del rapporto con la società e l’ambiente nei periodi del loro governo. Ha trattato con particolare attenzione le biografie di Federico II, Bona Sforza e Isabella d’Aragona e le modificazioni eco-ambientali subite dai territori grazie ai loro interventi e alle loro opere. È stata più volte premiata per l’attività documentaristica all’International Tour Film Festival e in altre rassegne cinematografiche in Italia e all’estero, dove ha presentato lavori su territorio e salvaguardia e tutela dell’ambiente.
Della stessa autrice:
Nei segreti della musica – In loda degli Acquaviva d’Aragona
Bona Sforza Duchessa di Bari Regina di Polonia (Laterza ed.)
Bari – Il Racconto delle Periferie, Stanic Villaggio del Lavoratore
Per Amore della nostra Terra – Itinerari ambientali storici e culturali di Puglia
Frammenti di un Mosaico – Della Casa Acquaviva d’Aragona (Fides ed.)
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