Analisi e dati di un fenomeno devastante
“Contro il dissesto idrogeologico i fondi ci sono e il ministero dell’Ambiente è pronto a fare tutto quanto è nelle sue competenze per farli arrivare in fretta”. È questa la risposta del ministro dell’Ambiente Sergio Costa all’interrogazione parlamentare presentata da una deputata campana. La richiesta era quella di una resa dei conti sulle risorse destinate a mitigare il dissesto idrogeologico Italia.
Con il piano “Proteggi Italia”, infatti, sono stati stanziati circa 11miliardi di euro per il triennio 2019-2021.
Mentre la Corte dei Conti ha accertato che nel biennio 2016-2018 è stato utilizzato solo il 19,9% dei 100milioni del Fondo progettazione contro il dissesto Italia.
Il documento della Camera dei Deputati
E da un documento della Camera dei Deputati, datato 21 luglio 2020, si apprende che: «Nella legislatura in corso è stata modificata la governance del settore». Ed è stato approvato un piano nazionale che prevede risorse per il triennio 2019-2021 pari a circa 10,9miliardi di euro. La materia del dissesto idrogeologico è, inoltre, oggetto di numerose disposizioni normative. Nella legislatura in corso, in seguito alla mancata riconferma della “Struttura di missione” contro il dissesto idrogeologico, con il D.L. 86/2018, i relativi compiti sono trasferiti al ministero dell’Ambiente.
“Strategia Italia”
Successivamente, l‘art. 40 del D.L. 109/2018 ha previsto l’istituzione di una cabina di regia, denominata “Strategia Italia” (cui partecipa anche il ministro dell’Ambiente). Questa, aveva il compito, tra gli altri, di verificare lo stato di attuazione degli interventi connessi a fattori di rischio per il territorio, quali dissesto idrogeologico e vulnerabilità sismica degli edifici pubblici. Con la legge di bilancio 2019 (L. 145/2018) si sono approvate diverse disposizioni finalizzate a mettere a disposizione risorse (anche) per la messa in sicurezza del territorio.
Cosa si intende esattamente per dissesto idrogeologico?
L’espressione si riferisce ai processi di tipo morfologico caratterizzati da azioni che generano un degrado del suolo. Il dissesto idrogeologico può essere causato da fenomeni meteorologici. Benché le azioni che provocano un degrado del suolo siano molto spesso di origine antropica. Come ad esempio la cementificazione.
Il rischio idrogeologico in Italia è un problema da non sottovalutare. Può originare frane, esondazioni, alluvioni, dissesti di carattere torrentizio, sprofondamenti (dissesti idrogeologici in Italia). Tra le cause principali che determinano il dissesto idrogeologico si annoverano, oltre alla cementificazione, la deforestazione, le tecniche di coltura non ecosostenibili. Senza contare le estrazioni di idrocarburi e di acqua dal sottosuolo, l’abusivismo edilizio, l’abbandono dei terreni d’altura, lo scavo senza regole di cave, gli interventi senza criterio sui corsi d’acqua e la mancanza di manutenzione.
I rimedi per contrastare il dissesto esistono e sono strettamente legati alla volontà di salvaguardare il territorio. Infatti, troppo spesso l’ambiente è assoggettato all’economia. Come il blocco delle attività che aumentano i rischi e la realizzazione di un piano specifico sulla gestione e tutela del suolo.
I dati dell’Istituto per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA)
L’ISPRA presenta ogni due anni il “Rapporto nazionale sulla situazione del dissesto idrogeologico nel Paese”. Dagli ultimi dati presentati alla Camera dei deputati nel luglio del 2018, si apprende che il 91% dei comuni italiani (88% nel 2015) è a rischio. Oltre 3milioni di nuclei familiari risiedono in queste aree ad alta vulnerabilità.
«Complessivamente, il 16,6% del territorio nazionale – si legge nel Rapporto – è mappato nelle classi a maggiore pericolosità per frane e alluvioni (50mila km2). Quasi il 4% degli edifici italiani (oltre 550mila) si trova in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata e più del 9% (oltre 1milione) in zone alluvionabili nello scenario medio. L’Italia è uno dei Paesi europei maggiormente interessati da fenomeni franosi, con 620.808 frane che interessano un’area di 23.700 km2, pari al 7,9% del territorio nazionale. Complessivamente, sono oltre 7milioni le persone che risiedono nei territori vulnerabili. Oltre 1milione vive in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata (PAI – Piani di Assetto Idrogeologico) e più di 6 in zone a pericolosità idraulica nello scenario medio (ovvero alluvionabili per eventi che si verificano in media ogni 100-200 anni)».
Le regioni più a rischio di dissesto idrogeologico
«I valori più elevati di popolazione a rischio idrogeologico Italia si trovano in Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Lombardia, Veneto e Liguria.
Le industrie e i servizi – continua il Rapporto – posizionati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono quasi 83mila, con oltre 217mila addetti esposti a rischio. Il numero maggiore di edifici a rischio si trova in Campania, Toscana, Emilia-Romagna e Lazio.
Al pericolo inondazione, sempre nello scenario medio, si trovano invece esposte ben 600mila unità locali di impresa (12,4% del totale) con oltre 2milioni di addetti ai lavori. In particolare nelle regioni Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, Lombardia e Liguria dove il rischio è maggiore».
Patrimonio culturale italiano a rischio
Ad essere minacciato è anche il patrimonio culturale italiano. I dati dell’ISPRA «individuano nelle aree franabili quasi 38mila beni culturali, dei quali oltre 11mila ubicati in zone a pericolosità da frana elevata e molto elevata. Mentre, sfiorano i 40mila i monumenti a rischio inondazione nello scenario a scarsa probabilità di accadimento o relativo a eventi estremi. Di questi più di 31mila si trovano in zone potenzialmente allagabili anche nello scenario a media probabilità.
Tutelare e salvaguardare il nostro patrimonio culturale
Per la salvaguardia dei Beni culturali, è importante stimare il rischio anche per lo scenario meno probabile, tenuto conto che, in caso di evento, i danni prodotti al patrimonio culturale sarebbero inestimabili e irreversibili. Il numero più elevato di Beni culturali a rischio frane in aree a pericolosità P3 e P4 si registra in Toscana, Marche, Emilia-Romagna, Campania e Liguria. Numerosi sono i borghi storici interessati da fenomeni franosi innescatisi o riattivatisi anche negli ultimi anni».
La salvaguardia del patrimonio culturale a rischio è una tematica molto cara all’avv. Ezio Bonanni. Egli è stato docente di diritto dei beni culturali del Master Universitario di I livello in “Progettazione e promozione degli eventi artistici e culturali”, presso Alma Mater Studiorum – Università di Bologna.
E i comuni a rischio idrogeologico?
Secondo il Rapporto «in nove regioni (Valle D’Aosta, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Molise, Basilicata e Calabria) il 100% dei comuni è a rischio. L’Abruzzo, il Lazio, il Piemonte, la Campania, la Sicilia e la Provincia di Trento hanno percentuali di comuni a rischio tra il 90% e il 100%».
I dati dell’ISPRA sono preoccupanti specialmente se si considera che i danni del rischio idrogeologico costano quattro volte di più rispetto alla loro prevenzione. I centri urbani sono le aree più a rischio per le conseguenze dei cambiamenti climatici, come rivela un rapporto del 2019 dell’Osservatorio di Legambiente sull’impatto dei mutamenti climatici in Italia, intitolato “Il clima è già cambiato”.
Il Piano “Proteggi Italia”
Le inondazioni dell’ultimo anno avvenute a Venezia, Matera e Pisa e gli eventi meteorologici estremi che si sono abbattuti su molti territori e che colpiscono la penisola. La maggiore frequenza di questi eventi dimostra che il clima è mutato. Una speranza può essere l’attuazione del piano “Proteggi Italia” e gli 11miliardi di euro stanziati per il triennio 2019-2021. Ma è necessario che le Regioni facciano pervenire i dati che consentono l’erogazione dei finanziamenti previsti dal Fondo progettazione contro il dissesto.
Il monito dell’Ordine dei geologi della Puglia
Intanto dalla rete pluviometrica nel bacino della valle del fiume Fortore, dall’Ordine dei geologi della Puglia (Org) giunge un monito affinché si ripensi “la difesa del suolo nel suo complesso prevedendo un approccio multidisciplinare con stanziamenti non più straordinari ma con poste ordinarie in bilancio. Questo, dopo le copiose piogge registrate nei primi giorni di agosto“.
Individuare le strutture tecniche presenti sul territorio cui affidare la manutenzione delle opere realizzate. Assicurare percorsi certi sulle istruttorie dei progetti. Superare la anacronistica gestione commissariale del dissesto idrogeologico. Ma ancor prima va individuata negli organi tecnici della Regione la sede presso cui far ruotare l’iter di pianificazione, programmazione e controllo degli interventi per la difesa del suolo. Potenziando gli uffici con professionalità specifiche (geologi, forestali, etc.).
Urge una programmazione
Necessaria la riprogrammazione della mitigazione del rischio idraulico ed idrogeologico a scala di bacino idrografico. E non con interventi spot, spesso senza nessuna connessione fra loro. Un lavoro che implica l’urgenza di studiare i bacini idrografici, monitorare le aste torrentizie e i versanti e programmare la spesa su dati certi. Una riorganizzazione dell’intero comparto che diversamente continuerà a renderci spettatori impotenti di eventi calamitosi. E questo con notevole dispendio di risorse ed energie se non peggio con la regolare perdita di vite umane».
Cinquanta anni dalla relazione della commissione De Marchi, un bilancio
Il dissesto idrogeologico è un problema che in Italia si affronta ufficialmente almeno da mezzo secolo: nel 1970 fu, infatti, istituita la “Commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo – Roma 1970”, presieduta da Giulio De Marchi, professore di Idraulica al Politecnico di Milano.
Riportiamo di seguito alcuni stralci dello studio “Cinquanta anni dalla relazione della commissione De Marchi, un bilancio”. Ricerca compiuta da Luigi Da Deppo, professore emerito, Università degli Studi di Padova e Massimo Veltri, già Ordinario di idraulica, Università degli Studi della Calabria. «Il 3 e 4 novembre 1966 un grave evento alluvionale interessò ampia parte dell’Italia settentrionale con numerose vittime ed ingenti danni. Tra i luoghi colpiti la massima risonanza ebbero l’alluvione di Firenze e l’allagamento di Venezia dovuto al collasso delle difese costiere (murazzi) e ad un’eccezionale alta marea che raggiunse 1 m di tirante a Piazza San Marco, cuore della città».
Gli eventi dal Dopoguerra
«È tuttavia da ricordare che l’evento del 1966 era stato preceduto, per citare i due più gravi eventi dal dopoguerra, dall’alluvione del Polesine (Rovigo). Il 14 novembre 1951, conseguente alla rottura, in sinistra, dell’argine del Po, con 100 vittime stimate, l’allagamento di oltre 120mila ettari, e 180mila sfollati. Ma anche dal disastro del Vajont (Piave, Belluno) il 9 ottobre 1963, con 1909 vittime per l’onda creata da una frana del volume di 250×106 m3, che per metà del suo volume entrò nel lago omonimo, creato dalla appena completata diga ad arco più alta del mondo. Del novembre 1959 è l’alluvione di Cosenza».
La nomina della Commissione per l’esame dei problemi creati dalle alluvioni
«Subito dopo l’alluvione del 1966, il ministero dei Lavori pubblici costituì una Commissione per l’esame dei problemi creati dalle alluvioni. Per indicare come prevederli e limitare i danni e porvi poi rimedio in un quadro di difesa generale.
A presiedere la Commissione fu chiamato Giulio De Marchi, professore di Idraulica al Politecnico di Milano. La Commissione, nel termine previsto di otto mesi presentò una relazione di inquadramento dei problemi con indicazioni di orientamento per alcuni interventi urgenti (Delta del Po).
Eppure montagna e collina sono la sede dove originano i processi fluviali, dove insorgono i movimenti di massa, dove si bruciano sistematicamente ettari e ettari di vegetazione».
Rivedere le politiche territoriali
«E se lì il presidio umano e tecnico si è, se non desertificato, fortemente ridotto, se il modello di sviluppo è tutto incentrato a valle, come interveniamo? E ancora: se per aprire i cantieri di un’opera il vaglio, i vagli, durano un’enormità di anni e di timbri, e la qualità progettuale non è sempre una perla fra le perle, non ci si rende conto che la questione delle politiche territoriali va vista. Va rivista, dalle fondamenta, a cominciare dalla promozione profonda e robusta della interdisciplinarità e dal dialogo fra i diversi saperi: altro che baruffe chiozzotte fra i molteplici professionisti».
La verifica della Corte dei conti
Giova, a tal proposito, ricordare che, nel 2019, la Corte dei conti, per verificare lo stato di attuazione per la messa in sicurezza di aree interessate da dissesto idrogeologico, ha evidenziato numerose criticità. Tra queste, «l’inadeguatezza delle procedure e la debolezza delle strutture attuative; l’assenza di adeguati controlli e monitoraggi; la mancata interoperabilità informativa tra Stato e Regioni».
E ancora, «la necessità di revisione dei progetti approvati; la frammentazione e disomogeneità delle fonti dei dati sul dissesto. La difficoltà delle Amministrazioni, le mutate condizioni di occupazione del suolo, che hanno anche reso non più attuabili molte opere previste dalla Commissione De Marchi, l’intensificarsi di fenomeni climatici estremi. L’urgenza di mettersi al passo con il quadro di riferimento dei decisori, o, meglio, di proporne uno più efficiente. Il ribadire, dimostrandolo nei fatti, che gli aspetti strutturali di un sistema (quelli naturali: acqua, suolo) vanno posti in agenda in posizioni di rango il più alto possibile, hanno suggerito agli autori di questa nota una riflessione che da un lato recupera, tratteggiandolo sinteticamente».
Presa di coscienza della classe dirigente del Paese
«Un percorso glorioso e carico di frutti preziosi che non può essere disperso. Dall’altro invita a una presa di coscienza rivolta a chi fa parte della classe dirigente del Paese perché non abdichi passivamente a un ruolo che pure gli compete, fatto di proposta, di discussione, di stimolo, e riavvii una fase felice per le politiche territoriali improntate a poche parole chiave. Certezza delle responsabilità, conoscenza, pianificazione, prevenzione, semplificazione».