FOTOGRAFI DA TUTTO IL MONDO NON VOGLIONO RAPPRESENTARE SOLO LE INGIUSTIZIE DELLA SOCIETÀ MA COMPIERE UN VERO E PROPRIO ATTO DI RESISTENZA, IN CUI UN’IMMAGINE HA PIÙ VALORE DI MILLE PAROLE
Uno scatto serve a immortalare un momento, uno scatto serve a ricordare il passato, ma uno scatto può diventare anche un atto di resistenza. Molti fotografi nel mondo utilizzano infatti proprio la fotografia come mezzo di accusa rivolta alla società, al degrado, alla guerra e alla tirannia politica.
Un esempio di questo intento è presente nel volume Breathing Space. Qui è raccolto il lavoro di ventitré fotografe iraniane che mostrano il proprio Paese secondo un punto di vista femminile. Grazie alle loro foto, la lotta delle donne iraniane per i propri diritti è giunta all’attenzione del mondo. La stessa copertina del volume ritrae una donna con un velo nero, in conformità con il codice di abbigliamento islamico. Ma ha anche uno sguardo diretto e indossa guantoni da boxe rossi, pronta a combattere.
«In Iran nessuno accetta tutte le restrizioni – spiega la curatrice del volume, Anahita Ghabaian -. È una situazione molto particolare. Naturalmente, ci sono molte difficoltà. Ma gli artisti eludono le restrizioni esprimendosi, spingendosi oltre i limiti».
Metafore usate per trasmettere il dramma della guerra
Così, attraverso reportage, ritratti e messe in scena, si rappresentano metafore e simboli per esprimere quel qualcosa che sarebbe altrimenti considerato fuorilegge o inaccettabile. In particolare si cerca di comunicare un senso di nostalgia e di perdita, una terra in crisi e i drammi della guerra tra Iran e Iraq.
Per esempio la fotografa Shadi Ghadirian, che era una bambina durante il conflitto negli anni ‘80, con la serie “Nil Nil” giustappone oggetti di guerra con quelli di uso quotidiano. Invece la serie “No Soldier Has Returned from War” di Maryam Takhtkeshian riflette la perdita in guerra dello zio subita dall’autrice.
Grazie all’utilizzo di pellicole in bianco e nero scadute, crea immagini sovraesposte e sfocate che rendono i soldati nelle foto non identificabili, inquietanti e spettrali. Infine la serie “The Eyes of Earth” di Solmaz Daryani traccia l’impatto del rapido prosciugamento del Lago Urmia, un tempo il più grande lago salato del Medio Oriente, con scatti apocalittici che catturano scheletri di uccelli e vecchi pneumatici che giacciono nel sale secco.
«C’è amarezza nel libro, una tristezza in tutti i lavori -afferma Ghabaian -. In Iran abbiamo questi problemi e queste difficoltà che tutti conoscono e su cui non vogliamo più tacere. Questo libro serve anche a raccontare al mondo queste sfide. È un atto di resistenza».
L’atto di resistenza delle fotografe iraniane
Le ventitré fotografe iraniane, di cui sono raccolti i lavori nel volume, offrono poi una prospettiva femminile delle vicissitudini della propria terra, raccontata da ben tre generazioni diverse.
«Questo non è solo un libro artistico ma è anche un libro storico perché abbiamo tre generazioni di fotografe donne – racconta Ghabaian -. La cosa interessante è che la prima generazione, che scattava dalla fine degli anni ’70 in poi, si è concentrata sul pubblico, su cosa è successo per strada, all’università o in fabbrica, e non su se stessi. Dagli anni ’90, la seconda generazione di fotografe, come Ghadirian e Newsha Tavakolian, parla di più della condizione delle donne, ma senza raccontare veramente di sé. Mentre la terza generazione, il cui lavoro è degli ultimi anni, parla solo di se stessa.
Penso che le generazioni più anziane non si sarebbero date il permesso di parlare di sé. Stavano documentando ciò che stava accadendo, guardando al di fuori di se stessi. Poi la generazione successiva ha iniziato a sistemare le cose, a mettere in scena quello che volevano dire, a guardarsi dentro. Siamo usciti dal reportage e dal documentario puro e siamo andati verso una sorta di autoespressione. Ora questa generazione è davvero aperta e consapevole di sé e ha spostato il proprio sguardo verso l’interno».
Atto di resistenza per abbattere le barriere tra i popoli
La fotografia, oltre a poter essere un mezzo per rompere le barriere culturali, può anche cercare di abbattere quelle vere, costruite per dividere due popoli, israeliani e palestinesi. Il fotografo Ofir Berman ha frequentato entrambi i lati del muro. Ha poi raccontato la vita quotidiana in uno dei tratti di terra più contesi al mondo.
I suoi scatti non sono apertamente politici, ma documentano come la grande barriera riesca a segregare palestinesi e israeliani gli uni dagli altri, generando un’atmosfera di incertezza, frustrazione e animosità. Per esempio in una foto ritrae un semplice parco giochi per bambini, facendo però intravedere alle sue spalle un alto muro di cemento, che nasconde sia la luce sia il mondo.
Il suo intento è quindi catturare i ritmi quotidiani di uomini, donne e bambini, sorprendentemente simili per occupanti e occupati. Per indurre un senso onirico e di estraneità, invece della luce solare aspra e polverosa, sceglie un’illuminazione “sbiancata”, resa anche grazie all’uso di una macchina fotografica analogica.
Diego Bendezu racconta il dramma dell’immigrazione
Alcune comunità nel mondo sono obbligate a vivere confinate nel proprio territorio, altre invece sono costrette ad abbandonarlo. A raccontare il dramma dell’immigrazione è Diego Bendezu.
Il fotografo peruviano è stato lui stesso immigrato clandestino per sette anni a New York. Ha voluto così raccontare la difficile vita degli immigrati, come appunto quella dei venezuelani a Lima, immortalati nel progetto fotografico “Dear Lima”.
«La mia prospettiva di immigrato mi ha portato a documentare e fotografare questi giovani – spiega Diego Bendezu -. Purtroppo, gran parte del Sud America non è stata accogliente nei confronti dei venezuelani emigrati dall’inizio della crisi. Ogni volta che visitavo o parlavo con qualcuno in un diverso Paese sudamericano, questi si lamentava della questione degli immigrati. Sentirlo mi dava fastidio, perché in genere si trattava di persone che non avevano mai lasciato il loro Paese, soprattutto non in cerca di un futuro migliore. Credo che capire il significato di lasciarsi tutto alle spalle sia ciò che mi ha permesso di entrare in contatto e che mi ha spinto a gettare una luce positiva su queste persone coraggiose».
Atto di resistenza per un futuro migliore
Oltre sette milioni di venezuelani hanno abbandonato il proprio Paese a causa della repressione politica e dell’iperinflazione. Quest’ultima ha costretto più della metà della popolazione a vivere in povertà. Molti sono stati quindi costretti a fuggire, ad affrontare i pregiudizi e le difficoltà per adattarsi a una nuova cultura.
È anche questa, quindi, una storia di resilienza, di reinvenzione, di sopravvivenza e di lotta contro l’incertezza per una vita migliore. A rappresentarla è la comunità riunita all’autolavaggio a San Martin De Porres, un quartiere della capitale peruviana di Lima, che il fotografo ha deciso di ritrarre.
«Spero di trasmettere la loro determinazione e il loro coraggio mentre navigano in territori sconosciuti – afferma Bendezu -. L’obiettivo è dare loro voce, sfidare gli stereotipi e favorire l’empatia tra gli spettatori. Voglio celebrare la volontà di superare le sfide e la forza e la resilienza di questi ragazzi, al fine che siano d’ispirazione. Spero che possiamo creare un luogo in cui le esperienze di tutti gli individui, indipendentemente dal loro background, siano riconosciute e valorizzate».
L’arte di Ian Berry e il “lato oscuro” dell’acqua
E chi non ha la possibilità di cercare un posto migliore in cui vivere? E chi, per colpa di scelte politiche, si ritrova a non avere più niente per cui lottare? La disperazione di queste persone è ritratta, invece, da Ian Berry.
Nel suo nuovo libro Water esamina come le persone in tutto il mondo interagiscano con uno degli elementi più importanti per la vita: l’acqua. Sin dagli anni ‘70 Berry è rimasto affascinato dall’elemento, iniziando a documentare il suo uso nei più svariati rituali religiosi. Adesso però la sua prospettiva cambia. Inizia a rappresentare invece le conseguenze del cambiamento climatico, le inondazioni e le dighe costruite per contenerle, lo scioglimento delle calotte glaciali e gli effetti dell’inquinamento nelle scorte di acqua potabile.
Le sue immagini in bianco e nero sono un ritratto duro e potente dell’abuso di questa importante risorsa da parte dell’umanità, che ha gravi conseguenze non solo sull’ambiente ma anche sulla società. Ne sono un esempio le diverse fotografie scattate alla diga più grande del mondo, la Diga delle Tre Gole sul fiume Yangtze, lunga 2.335 metri.
Berry testimonia come la sua realizzazione non ha comportato solo il controllo delle inondazioni e un modo per generare energia idroelettrica ma anche lo sfollamento della popolazione. Uno scatto in particolare ritrae una donna a Wanxian, nella provincia del Sichuan, nella Cina sud-occidentale, che dorme su una sedia accanto a mucchi di macerie, costretta a lasciare la sua casa mentre il suo villaggio veniva demolito per fare spazio al nuovo percorso dello Yangtze.