lunedì, Settembre 9, 2024

Essere soldato e madre: la battaglia di Marianna Di Luzio

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L’EX CAPORALMAGGIORE DELL’ESERCITO ITALIANO, MARIANNA DI LUZIO, RACCONTA LE SFIDE CHE HA AFFRONTATO PER FAR RICONOSCERE IL DIRITTO ALLA FAMIGLIA ANCHE NELLE FORZE ARMATE

Passo dopo passo le donne, dapprima recluse tra le mura domestiche, si sono fatte largo nel mondo del lavoro, riuscendo a ricoprire ruoli di primo piano in ogni professione. Con l’arrivo del nuovo millennio anche le Forze Armate si sono aperte ad accogliere le donne nei propri ranghi.

Eppure negli anni sono stati molti gli ostacoli da dover superare. A segnare un importante cambiamento è stata in particolare la vicenda che ha coinvolto l’ex caporalmaggiore dell’Esercito Italiano, Marianna Di Luzio.

«Avevo 18 anni quando ho scelto di far parte delle Forze Armate, una scelta in cui credevo fortemente, sia per il mio carattere e sia perché le ammiravo – racconta Di Luzio -. Però questo mondo alle donne era precluso. Il mondo delle Forze Armate era una giungla inesplorata. Io ho partecipato al terzo concorso che era stato emanato dopo l’entrata in vigore della legge 380 del 1999, approvata per far sì che l’Italia si mettesse al pari con gli altri Paesi dell’Unione Europea. L’ambiente stava quindi ancora cercando di “aggiustarsi”. In caserma potevi trovare sia il collega aperto, più propenso all’aiuto, sia il collega che vedeva l’inserimento delle donne in maniera molto scettica, più duro e non propenso al dialogo».

Sebbene avesse già dovuto superare determinati pregiudizi, Marianna Di Luzio non sapeva che ne avrebbe dovuto affrontare un altro, di gran lunga più complicato e che l’avrebbe coinvolta addirittura in un procedimento giudiziario: l’essere mamma nell’Esercito Italiano.

La battaglia giudiziaria di Marianna Di Luzio

«Anche dopo che le donne hanno preso piede nelle Forze Armate e sempre più ragazze sceglievano di arruolarsi, le “mamme” non riuscivano in nessun modo a inserirsi in questo ambiente, perché non venivano messe nelle giuste condizioni – spiega -. Si è alzato un muro. La scelta è: o essere mamma o essere soldato. Ma io non volevo scegliere perché questa professione io l’avevo voluta».

Così, dopo due volte in cui era stato respinto il suo trasferimento da Bologna a Bari per poter assistere il suo secondo figlio, nato prematuro, ha deciso di rivolgersi al TAR dell’Emilia Romagna (Tribunale Amministrativo Regionale) per far valere i diritti previsti dall’articolo 42 bis del T.U. sul pubblico impiego, che prevede appunto la possibilità di trasferimento per i genitori con figli fino a tre anni di età, dipendenti di amministrazioni pubbliche. Tuttavia, secondo il ministero della Difesa, al personale militare non dovevano essere applicate queste norme.

La sentenza del TAR nel 2012 ha poi decretato, però, in favore del diritto alla famiglia: “rientrando tale norma tra quelle dettate a tutela di valori costituzionalmente garantiti inerenti alla famiglia e all’assistenza dei figli minori fino a tre anni d’età con i genitori impegnati nello svolgimento di un’attività lavorativa, non (si) può operare un’ingiustificata discriminazione tra dipendenti pubblici tale da configurare profili di dubbia costituzionalità, come preteso dall’amministrazione militare”.

Il Consiglio di Stato tutela i diritti dei padri e delle madri

Si segna così una svolta fondamentale nella battaglia per il riconoscimento della parità di tutti i dipendenti pubblici, militari compresi, riconosciuta dallo stesso Consiglio di Stato.

«Quando si è diffusa la notizia ho scoperto che la maggior parte delle donne in questa stessa situazione si era congedata – racconta l’ex caporalmaggiore -. C’erano tante donne che non hanno avuto il coraggio o la disponibilità economica per intraprendere un procedimento giudiziario. Venivano demoralizzate, perché i comandanti dicevano “tanto perdi”, dato che non c’erano precedenti giudiziari in nostro favore. A me invece scattò un meccanismo differente. Così, grazie all’aiuto economico anche della mia famiglia, ho deciso di intraprendere la strada giudiziaria. Pretendevo l’aiuto delle Forze Armate, dato che nei tredici anni precedenti l’avevo aiutata io. Determinati atteggiamenti ti volevano costringere a scegliere. Ma dopo la decisione del Consiglio di Stato di tutelare i diritti dei padri e delle madri è stato raggiunto il traguardo. Adesso esiste un salvagente se le donne vogliono diventare mamme».

Marianna Di Luzio, anni al servizio dell’Esercito Italiano

La “pretesa” di Marianna Di Luzio è stata infatti giustamente avanzata dati i suoi tanti anni di servizio nell’Esercito, durante i quali ha partecipato anche a una missione in Iraq a soli vent’anni. Era infatti il 2004 quando prese parte alla missione “Antica Babilonia 5” in un’area altamente pericolosa. Qui ognuno aveva un ruolo e faceva parte di una squadra, sia se si era donna sia se si era uomo.

«L’importante era essere coesi, nonostante ci siano state comunque delle liti, soprattutto quando, dopo quattro o cinque mesi, subentra la stanchezza. Ma c’era fiducia e coesione l’uno nell’altro perché altrimenti mancava la squadra. Lì devi salvare te stesso e gli altri – continua Di Luzio -. In particolare io svolgevo servizio in sala radio, da cui coordinavamo le pattuglie all’esterno e le avvertivamo di rientrare se succedeva qualcosa. È stata un’esperienza formativa. Nonostante le difficoltà non ti sentivi mai un passo indietro perché si era donne o giovani. Io avevo vent’anni mentre il mio capopattuglia cinquanta. Nonostante le differenti esperienze, le persone si sono fidate».

Per questo la delusione è stata grande per Marianna quando ha capito che non avrebbe ottenuto l’aiuto sperato in un suo momento di difficoltà dall’Arma che aveva scelto di servire.

«Sin dal 2001 alla caserma di Ascoli Piceno, ristrutturata a “misura di donna”, il colonello aveva sottolineato il fatto che quella sarebbe diventata per noi una famiglia. Queste parole mi avevano messo tranquillità – racconta amareggiata -. Perciò io ho sempre avuto la volontà di mantenere la divisa, viste tutte le prove che avevo superato. Ma sono stata delusa da quella che consideravo appunto una famiglia. Nelle situazioni in cui serviva il mio supporto, io ho dato il massimo. Purtroppo, però, quando io ero in difficoltà, l’Esercito non mi ha aiutato».

“Militare un giorno, militare tutta la vita”

Eppure Marianna Di Luzio, passata a ruolo civile dopo un incidente stradale e adesso impiegata all’Avvocatura dello Stato, conserva nel cuore i suoi anni in caserma. «Impari a viverla la caserma e impari a farla tua – confessa -. Militare un giorno, militare tutta la vita. Stelletta un giorno, stelletta tutta la vita».

Nonostante tutto, consiglierebbe quindi alle donne di intraprendere la carriera militare? La sua risposta non poteva che essere affermativa.

«La mente di una donna è più razionale e meno dura – conclude -. L’uomo è nato militare, mentre la donna ha un tocco morbido che non guasta nell’ambiente. È sempre importante la disciplina, servire lo Stato, però la Forza Armata può essere ammorbidita. La donna non va sottovalutata. Ci sono donne più in gamba di tanti uomini, le quali sono in grado di elevare la Forza Armata italiana a livello europeo. Consiglio però di studiare, addentrarsi nei meccanismi e aggiustarli per far parte di quella grande famiglia. Non bisogna scegliere di fare il militare solo per lo stipendio sicuro. Questa professione va scelta solo se ci credi, perché se è un ripiego non è il mondo per te. Chi deve entrare adesso ci deve credere perché il sacrificio c’è, soprattutto all’inizio, come l’essere lontano da casa».

Numero verde ONA

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