IN QUESTA “GIORNATA DELLA MEMORIA” SI RICORDANO QUEGLI ANNI OSCURI DURANTE I QUALI HANNO PERSO LA VITA MOLTI INNOCENTI. IL MODO MIGLIORE PER RICORDARE È RIVIVERE QUELLE TRAGICHE STORIE ATTRAVERSO LE VOCI DI CHI C’ERA E CONTINUA A RACCONTARE, PER NON DIMENTICARE
“Shoah” è un termine ebraico riportato dalla Bibbia per indicare “disastro”, “distruzione”. Ed è la distruzione dell’essere umano quella che si ricorda il 27 gennaio, la “Giornata della Memoria”. La data rimanda alla liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche, giorno in cui emergono per la prima volta le testimonianze di chi era sopravvissuto all’orrore del genocidio nazista.
«La Wandelweg è immersa nel sole, nella pura, prima, giovane luce. I boccioli si gonfiano, l’acqua luccica. Vietato agli ebrei. Ma chi potrà togliermi questo piacere, questo desiderio di vita primaverile? Doppiamente goduto, perché il desiderio è più forte del divieto – scriveva Carla Simons, autrice olandese di origine ebraica, nel suo “La luce danza irrequieta. Diario 1942-43” -. Penso, quando vedo gli uccelli svolazzare: dopo questo inverno, che sembrava così lungo, così brutale, così amaro, non tutti gli uccelli sono morti. Non tutte le piante sono morte congelate, non tutte le persone sono morte. Sorge puro in me il sentimento della vita: per vivere questa dolce ebbrezza, valeva la pena affrontare l’inverno».
L’importanza della “Memoria” secondo Lia Levi
Ciò che è accaduto ha violato ciò che ci rende umani, un oltraggio che non dovrà mai più ripetersi e non dovrà essere dimenticato. E questa commemorazione di tutti coloro che hanno perso la vita nella difesa della propria identità, ogni anno, ci aiuta a ricordare.
«C’è una differenza tra ricordi e memoria – ha spiegato Lia Levi, scrittrice, giornalista e superstite dell’Olocausto -. La memoria parte dai ricordi. Elabora i ricordi. È la memoria che crea spessore al proprio Io, diventa parte del nostro DNA. Per questo è importante trasmettere questo concetto, soprattutto ai più giovani».
E quella di Lia Levi è una delle voci che possono raccontare quell’orrore. Ne dà una dimostrazione nel suo esordio letterario “Una bambina e basta”, la cui storia è autobiografica, e continua nei suoi tanti romanzi d’invenzione dove, però, l’atmosfera rimanda spesso agli anni della sua infanzia, a quel contesto storico che confessa è «quello più conosciuto ma meno capito».
Non mancano nella sua carriera saggi e racconti di formazione destinati ai più piccoli come “Il Giorno della Memoria raccontato ai miei nipoti“, i cui “nipoti” a cui si rivolge sono i tanti studenti con cui dialoga nei molti incontri organizzati nelle scuole d’Italia e le cui domande, anche quando semplici, hanno ispirato il testo.
Il ricordo indelebile della scrittrice Edith Bruck
Un’altra voce, anzi scrittura, in cui ogni parola è precisa, granitica e meditata, ma non è mai di odio, perché l’odio avvelena e lei non vuole essere avvelenata, è quella di Edith Bruck.
La scrittrice è di origini ungheresi, vincitrice del Premio Strega Giovani con il suo romanzo “Il pane perduto”. Questo titolo richiama un suo ricordo indelebile, il ricordo di quel pane che la madre aveva preparato nel forno il giorno in cui i fascisti ungheresi andarono a prenderli. Lo aveva fatto lievitare la notte precedente ed era pronto per la cottura, che però non è mai avvenuta.
E così, all’età di soli tredici anni, Edith Bruck viene deportata ad Auschwitz e poi in altri campi, Dachau e Bergen-Belsen, da cui sarà liberata nell’aprile del 1945. Perse la madre, il fratello e il padre. A sopravvivere furono lei e sua sorella. Ma anche dopo essere tornata dai propri familiari il ritorno alla vita è stato duro. Nel viaggio ha cercato la propria “casa”, da Israele a diverse capitali europee fino all’Italia, dove a Roma ha piantato finalmente radici.
Cogliere l’umanità anche nella tragedia
Ripensando al passato Edith Bruck ha raccontato che a salvarla furono cinque gesti di umanità.
«Eravamo ad Auschwitz quando venni strappata da mia madre: mi attaccai a lei con le unghie. Fu il momento più atroce, ma non c’è stato niente da fare e proprio in quel momento ho visto la prima luce – confessa la scrittrice in un’intervista al Corriere della Sera -. Il soldato che mi strattonava con violenza, mi ordina “vai a destra”, poi capii perché: mia madre era destinata ai forni crematori, a destra invece c’erano i lavori forzati dove fui dirottata, un briciolo di pietà.
La seconda luce l’ho vista a Dachau. Noi ragazzine venivamo utilizzate come inservienti nella cucina di un castello, fuori dal campo, dove alloggiavano gli ufficiali tedeschi: per noi un luogo paradisiaco, perché riuscivamo di nascosto, ogni tanto, a rubare qualcosa da mangiare. Il cuoco, tedesco, mi chiese: “Come ti chiami?”. Non sapevo cosa rispondere, non eravamo delle persone, eravamo degli scheletri senza capelli. Non avevamo un nome, eravamo un numero, il mio era 11152. Il cuoco si avvicina e mi dice che aveva una bambina come me. Così tira fuori dalla tasca un pettinino e me lo regala».
Edith Bruck e la Memoria di quei giorni
«La terza luce: un altro soldato, un giorno, mi sbatte addosso la sua gavetta ordinandomi di lavarla. Ma lui sapeva che, nel fondo, era rimasta un po’ della sua marmellata, che aveva lasciato per me – continua Edith Bruck -. La quarta luce fu quando un sorvegliante mi regalò un suo guanto bucato. E infine la quinta luce, la più importante.
Eravamo a Bergen-Belsen ed eravamo costretti a portare sulle spalle i pesanti giubbotti dei militari che stavano alla stazione, in partenza per il fronte. Ma dovevamo percorrere tanti chilometri, andata e ritorno, nel freddo, nella neve. A un certo punto io non riuscivo più a sostenere quel peso. Insieme ad altri cominciammo a buttarli per terra. Un soldato ci viene incontro urlando e chiedendoci chi aveva buttato giù i giubbotti, minacciando di sparare a tutti.
Feci un passo avanti. Tanto, in un modo o nell’altro, dovevi morire. Il soldato mi spacca un orecchio e, dal dolore, cado a terra sanguinante. Mia sorella, che era al mio fianco, salta addosso al tedesco, il quale, prima mi punta una pistola addosso, poi allunga una mano per aiutarmi ad alzarmi. Ero totalmente stupita, attonita però mi ritrovai in piedi».
In “Specchi” da una stanza a un’intera vita
Una storia intensa che Edith Bruck continua a testimoniare, ai piccoli studenti, ai più giovani e al mondo, anche attraverso le sue opere, come in “Specchi”, una prova lirica uscita nel 2005 e ripubblicata da Edizioni di Storia e Letteratura insieme a una sua intervista inedita.
Questo poemetto trae origine proprio dalla necessità di ricostruire stralci del passato e del presente. Tutto avviene attraverso gli oggetti di una stanza che, come in una successione di specchi, raccontano all’autrice l’itinerario della sua vita. Si dispiegano così le storie di chi ha compiuto un grande viaggio, profondamente segnato dai campi di sterminio nazisti, e che torna alla sua infanzia, per poi divagare nel tempo.