sabato, Gennaio 18, 2025

Conseguenze ambientali del conflitto nella striscia di Gaza

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IL CONFLITTO TRA ISRAELE E HAMAS NON MINACCIA SOLO LA PACE NEL MONDO E LA VITA DI TANTI INNOCENTI MA ANCHE LA SALUTE DEL NOSTRO PIANETA.

La guerra a Gaza non ha solo un immenso costo umano, con il numero di vittime civili che cresce ogni giorno, ma anche il Pianeta sta pagando un prezzo alto. Secondo il recente studio diffuso dalla testata inglese The Guardian, le emissioni generate soltanto nei primi due mesi di conflitto sono state superiori all’impronta di carbonio annuale di oltre venti delle nazioni più vulnerabili al clima del mondo.

Oltre il 99% delle 281mila tonnellate di anidride carbonica stimate si produsse nei primi due mesi successivi all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. Possono essere attribuite al bombardamento aereo israeliano e all’invasione terrestre di Gaza. A sostenerlo sono i risultati dello studio portato avanti dai ricercatori del Regno Unito e degli Stati Uniti e pubblicato su Social Science Research Network.

Tuttavia la valutazione è probabilmente molto sottostimata. Ma già con questi dati dei primi sessanta giorni di conflitto risulta che il costo climatico della risposta militare israeliana equivale alla combustione di almeno 150mila tonnellate di carbone.

Le emissioni di CO2 prodotte durante il conflitto

L’analisi, in particolare, si concentra sul valore di CO₂ prodotta dagli aerei, dal carburante di altri veicoli, dalla fabbricazione e dall’esplosione di bombe, artiglieria e razzi. E più della metà di queste emissioni è prodotta dagli aerei cargo statunitensi che trasportavano rifornimenti militari in Israele (133mila tonnellate di anidride carbonica). Gli aerei israeliani ne hanno prodotte invece 121mila tonnellate, il trasporto terrestre circa 5mila tonnellate, mentre bombe, razzi e munizioni circa 21mila tonnellate. Infine i razzi di Hamas lanciati su Israele nello stesso periodo hanno generato circa 713 tonnellate di CO₂.

I dati, poi, non includono le emissioni prodotte da altri gas serra, come il metano, e non considerano l’intera catena di approvvigionamento bellico. Perciò si considerano solo le emissioni prodotte dai mezzi che hanno operato sul territorio di Gaza e da quelli dedicati al rifornimento diretto.

«Questa ricerca ci aiuta a comprendere l’immensa portata delle emissioni militari, dalla preparazione alla guerra, dallo svolgimento e dalla ricostruzione dopo il termine del conflitto – ha dichiarato David Boyd, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani e l’ambiente -. Il contrasto armato spinge l’umanità ancora più vicino al baratro della catastrofe climatica. È un modo sciocco di spendere il nostro sempre più ridotto budget di carbonio».

I costi della ricostruzione nella striscia di Gaza

Ma le conseguenze per l’emergenza climatica globale sono esacerbate non solo dalle emissioni prodotte dalle bombe e dagli aerei, ma anche da quelle che saranno prodotte dalla ricostruzione di tutti gli edifici danneggiati a Gaza.

Il costo del carbonio derivante dalla ricostruzione di 100mila edifici genererà almeno 30milioni di tonnellate di CO₂, pari alle emissioni annuali della Nuova Zelanda e ben superiore a quelle di altri 135 Paesi, come Sri Lanka, Libano e Uruguay. E anche questa stima non considera i nuovi sviluppi. Secondo quanto emerge dalle immagini satellitari dell’area, contano tra i 102mila e i 129mila edifici abbattuti o gravemente danneggiati nella striscia di Gaza.

Infine, se si considerano anche tutte le infrastrutture belliche costruite sia da Israele sia da Hamas, comprese la rete sotterranea di 500 chilometri di tunnel costruita da Hamas e la recinzione protettiva israeliana di 65 chilometri, si sono generate circa 450mila emissioni di gas serra.

La crisi climatica si abbatte sulla striscia di Gaza

Questo aumento delle emissioni di gas serra dovuto al conflitto purtroppo farà sentire i suoi gravi effetti proprio sul territorio del Medio Oriente. Già l’area, le sue disponibilità idriche e la sicurezza alimentare, erano minacciate da tipiche conseguenze della crisi climatica, come l’innalzamento del livello del mare, la siccità e il caldo estremo.

La situazione nella striscia di Gaza adesso è ancora più catastrofica. Gran parte dei terreni agricoli, delle infrastrutture energetiche e idriche sono stati distrutti o inquinati, con impatti sanitari devastanti.

Inoltre le emissioni di anidride carbonica nella zona del Mediterraneo orientale e del Medio Oriente stanno crescendo rapidamente. Hanno superato anche quelle dell’Unione Europea e non solo a causa del conflitto attuale. Negli ultimi decenni, l’area si è riscaldata molto più velocemente rispetto ad altre regioni abitate e sono emersi evidenti cambiamenti nel ciclo idrologico. Inoltre si prevede che si aggraveranno gli eventi climatici estremi, come ondate di caldo, siccità e tempeste di polvere, nonché eventi di pioggia torrenziale che possono innescare inondazioni improvvise.

L’impatto sulla crisi climatica del settore militare

Un impatto rilevante nella crisi climatica è quello dato dalle emissioni di gas serra prodotte dalle Forze Armate, come questa stessa ricerca sottolinea.

«Lo studio è solo un’istantanea dell’impronta militare più ampia della guerra – ha affermato Benjamin Neimark, professore alla Queen Mary University of London e coautore della ricerca -. È un quadro parziale delle massicce emissioni di carbonio e degli inquinanti tossici più ampi che rimarranno a lungo dopo la fine dei combattimenti».

Nonostante, infatti, la dichiarazione delle emissioni militari alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) da parte dei vari Stati è volontaria, secondo i dati diffusi dal rapporto Estimating the Military’s Global Greenhouse Gas Emissions, pubblicato da Scientists for Global Responsibility e Conflict and Environment Observatory, le Forze Armate rappresentano quasi il 5,5% delle emissioni globali di gas serra ogni anno. Sono più di quelle prodotte dalle industrie dell’aviazione e della navigazione. Ciò rende l’impronta di carbonio militare globale, anche senza tenere conto dell’aumento durante specifici conflitti, la quarta più grande, dopo Stati Uniti, Cina e India.

«L’eccezionalismo ambientale dei militari consente loro di inquinare impunemente, come se le emissioni di carbonio emesse dai loro carri armati e dai loro aerei da combattimento non contassero – continua Neimark -. Tutto questo deve finire. Per affrontare la crisi climatica abbiamo bisogno di responsabilità».

Numero verde ONA

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